di Stefano Teani
È successo a Lucca, ma potrebbe accadere ovunque. Un artista realizza una statua su commissione di un’importante associazione (I Lucchesi nel Mondo), una volta realizzata viene installata in un luogo chiave della Città, dato dal Comune. Ma dopo l’inaugurazione, l’autore comincia a modificarla: nel tempo aggiunge graffiti e disegni con chiari messaggi politici. Per lui l’opera non è conclusa, ma viva, in continua evoluzione. Il Comune, invece, non è d’accordo: quell’opera è pubblica, di proprietà cittadina. Si parla di sanzionare l’artista, ed esplode un caso.
Al di là del clamore e degli aspetti legali, questo episodio porta alla luce una domanda tanto sottile quanto centrale per la cultura contemporanea: chi è il “padrone” di un’opera d’arte? L’artista che l’ha concepita o chi ne entra in possesso? E può un’opera considerarsi mai davvero conclusa?
L’opera d’arte tra paternità e autonomia
La tensione tra autore e fruitore, tra creazione e proprietà, non è nuova. Già Hegel concepiva l’arte come manifestazione dello Spirito assoluto: attraverso l’opera, lo spirito umano si oggettiva nella forma sensibile. Ma, una volta realizzata, l’opera sfugge al suo creatore: si emancipa, entra nel mondo, si offre agli sguardi e alle interpretazioni.
Un secolo dopo, Theodor W. Adorno, nella Teoria estetica, ribadisce questo slittamento. L’opera autentica, dice, è quella che resiste alla sua piena comprensione, che mantiene un nucleo di indeterminatezza. Ma proprio questa autonomia rende problematica ogni forma di “proprietà” piena e definitiva: né l’autore né il pubblico possono dominarla del tutto.
Eppure, gli autori non sempre accettano di perdere il controllo. Il caso lucchese lo dimostra: l’artista continua a intervenire, come se l’opera non potesse essere sottratta alla sua volontà creativa. Ma l’atto stesso della consegna — giuridica, simbolica, spaziale — implica una rinuncia.
Dall’arte come possesso all’arte come processo
Il pensiero contemporaneo ha messo fortemente in discussione la figura dell’autore come padrone del significato. Roland Barthes, nel celebre La morte dell’autore, sosteneva che ogni testo vive grazie a chi lo legge, non a chi l’ha scritto. L’autore è solo uno dei tanti possibili lettori privilegiati della sua opera.
Per Gilles Deleuze, invece, l’opera d’arte è una macchina desiderante, che funziona in quanto produce senso, affetti, connessioni. L’artista non è il possessore, ma il catalizzatore di un processo. In quest’ottica, anche il gesto di modificare un’opera già collocata può essere interpretato come un’estensione del flusso creativo. Ma è lecito farlo quando l’opera è diventata parte di uno spazio pubblico?
Esempi celebri di conflitto artistico
La storia dell’arte è disseminata di episodi simili. Marcel Duchamp, con la sua Fontaine (1917), trasformò un oggetto industriale in opera d’arte semplicemente spostandolo di contesto. Ma quando, decenni dopo, l’artista Pierre Pinoncelli urinò e colpì con un martello una delle copie dell’opera, lo fece rivendicando un gesto artistico. La reazione fu una denuncia per danneggiamento: ma chi aveva ragione?
Ancora più noto il caso di Banksy, il celebre street artist britannico. Nel 2018, la sua opera Girl with Balloon si autodistrusse parzialmente subito dopo essere stata battuta all’asta. Un gesto performativo contro la mercificazione dell’arte. Ma il compratore, anziché ritirarsi, accolse l’opera mutilata, che nel frattempo era diventata ancora più preziosa. Il potere dell’artista di sabotare la propria opera non venne contrastato, ma assorbito dal sistema.
Anche nel campo della scultura pubblica esiste un precedente emblematico: Tilted Arc di Richard Serra, una grande installazione in acciaio collocata a Manhattan nel 1981. Contestata dai cittadini e dai lavoratori della zona, fu infine rimossa nel 1989, contro la volontà dell’artista. Serra dichiarò: «Rimuoverla è come distruggerla». Ma la città non fu d’accordo. Lo spazio pubblico ha le sue logiche, che non sempre coincidono con quelle dell’autore.
Kafka, Brod e l’opera postuma
Un esempio paradossale è quello di Franz Kafka, che ordinò all’amico Max Brod di bruciare tutti i suoi scritti dopo la morte. Brod disobbedì, pubblicando Il processo, Il castello e altri capolavori. Senza questa violazione, oggi non avremmo uno degli autori più importanti del Novecento. Ma cosa ne è stato, in quel momento, della volontà dell’autore? Possiamo davvero considerare un’opera solo come proprietà dell’autore, o essa appartiene anche alla memoria culturale collettiva?
Walter Benjamin e l’opera nella sua riproducibilità tecnica
Nella sua celebre riflessione sull’arte, Walter Benjamin scriveva che la riproducibilità tecnica aveva sottratto all’opera il suo “aura”, quella dimensione rituale che ne garantiva unicità e autenticità. In un mondo dove ogni opera può essere replicata, remixata, reinterpretata, il concetto di proprietà artistica si fa sempre più fragile. L’autore non è più l’unico depositario del senso, né l’opera è un oggetto sacro e intoccabile.
Conclusione: verso una responsabilità condivisa
Il caso di Lucca non è solo una disputa tra artista e Comune: è un simbolo di un conflitto più ampio tra creatività e istituzione, tra gesto e permanenza, tra libertà espressiva e responsabilità collettiva.
L’arte, oggi più che mai, è relazione. Non appartiene del tutto a chi la crea, né solo a chi la possiede, ma esiste nella dinamica tra autore, fruitore e contesto. La proprietà artistica non è un diritto assoluto, ma un equilibrio fragile, da ridefinire ogni volta.
Forse, come scriveva Italo Calvino, “l’opera esiste solo dove c’è chi la guarda con intenzione”. E allora la vera proprietà non è possesso, ma cura. Un’arte pubblica, viva, condivisa — ma anche rispettata nei suoi confini, materiali e simbolici.
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