In perfetto equilibrio sulle note di Mozart. Intervista a Sergio Marchegiani del duo pianistico Schiavo-Marchegiani.

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di Biagio Quaglino

Il duo pianistico Schiavo-Marchegiani negli anni ci ha regalato interpretazioni apprezzate dal pubblico e dalla critica internazionale. Hanno inciso numerose opere della letteratura per pianoforte a quattro mani per la casa discografica Decca e collaborato con importanti orchestre in tutto il mondo.

L’ultima gioia discografica è dedicata a W.A. Mozart. Nel nuovo album “Mozart for Two”, prima uscita della collana che prevede l’incisione integrale delle opere per pianoforte a quattro mani del genio di Salisburgo, si sente la loro profonda sintonia che guida l’ascoltatore nel clima intimo e nel sapiente gioco di intrecci e scambi continui nelle sonate KV 19d, 358, 381, 521. Composte tutte in tre tempi, sono lavori pensati da Mozart per le esecuzioni domestiche a fianco della sorella Maria Anna (Nannerl). L’album è un viaggio nell’evoluzione stilistica e compositiva del genio di Salisburgo e i due musicisti ci restituiscono una lettura vivida e consapevole.

 

Il titolo del disco “Mozart for Two” richiama alla mente il famoso brano e standard jazz “Tea for two”. Parafrasando il testo, l’ultimo verso dice: “Esser si può così felici”. Possiamo dire che c’è un nesso, un parallelismo tra i due titoli nel ricreare una visione di leggerezza, di giocosità, che guarda all’immaginazione e al gusto per l’improvvisazione tipica di queste pagine mozartiane?

 L’idea del titolo non è venuta a noi ma alla casa discografica Decca che ha pubblicato il disco. In realtà il collegamento con la canzone venne anche a me quando, nel 2014, Marco ed io abbiamo inciso l’album dedicato alle opere di Franz Schubert per pianoforte a quattro mani al quale fu dato il titolo “Schubert for Two”. Ad ogni modo nell’ultimo disco di Mozart quest’accostamento mi sembra adatto, perché come si legge fra le note di copertina il nostro modo di affrontare l’attività musicale, lo studio, i concerti e le registrazioni, fin dall’inizio è stato sempre accompagnato dalla gioia e alla fine cerchiamo di trasmettere questo al pubblico nei nostri concerti. Crediamo fortemente che attraverso la musica si può esser felici e questo parallelismo è quanto mai appropriato.

 

Il tema principale del disco è il doppio e allo stesso tempo suonare un solo strumento. Ci sono differenze e simmetrie, ognuno di voi ha la sua unicità che mette al servizio dell’altro. Come vi siete conosciuti? Cosa vi spinge a progettare nuove sfide?

Capitò che casualmente, nell’estate del 2006, ci fu proposto di suonare in Spagna il Concerto di Mozart per due pianoforti e orchestra in Mi bemolle maggiore K 365, non lo avevamo mai suonato né insieme né con altri. Fu molto bello e divertente, così in modo molto spontaneo e naturale nacque il nostro duo. Poi nel corso degli anni abbiamo affrontato anche il repertorio per pianoforte a quattro mani che è più semplice da proporre agli enti concertistici.

Da allora sono passati quindici anni e non ci siamo mai fermati. E’ stata una piacevole scoperta, quello che ci lega e ci spinge ad andare avanti è l’amicizia personale, una sorta di fratellanza che ci unisce: siamo persone con caratteri diversi, veniamo da formazioni differenti e ci siamo semplicemente “trovati” fuori e dentro la musica. Questo è il nostro quarto disco insieme, svolgiamo un’intensa attività concertistica e proviamo sempre tanta gioia nel fare musica insieme, nell’affrontare anche gli aspetti collaterali del suonare, ovvero i numerosi viaggi, la condivisione dei momenti ordinari, la preparazione vera e propria dei concerti. Suonare insieme non si limita soltanto al momento in cui si va sul palco ma è qualcosa che si prepara, che muove e coinvolge numerosi aspetti delle nostre vite.

Per suonare in duo pianistico bisogna affrontare una serie di questioni pratiche: suonare a quattro mani comporta la divisione dello spazio sulla tastiera e non è cosa semplice, così come per esempio l’uso del pedale, l’attacco del tasto, gli equilibri fra le parti; se ci pensiamo, il duo con pianoforte a quattro mani è l’unica formazione in cui due musicisti condividono lo stesso strumento. Noi affrontiamo sempre tutto con lo stesso spirito di condivisione e dopo tanti anni ci conosciamo un po’ a memoria. Recentemente abbiamo fatto un concerto in Francia e fra le recensioni uscite ne abbiamo letta una in cui siamo stati paragonati a Visnù, la divinità indiana con quattro braccia. (ride! Ndr.)

 

In ogni coppia che si rispetti sono necessari: dialogo, scambio continuo, empatia, la voglia di star bene con l’altro, a maggior ragione in una coppia musicale come la vostra a servizio della musica di Mozart.

Siamo al secondo disco dedicato alle musiche di Mozart. Il primo prevedeva i concerti per due pianoforti e orchestra, il Concerto in Fa maggiore K 242 “Lodron”, adattamento dal corrispettivo per tre pianoforti, e il bellissimo Concerto n. 10 in Mi bemolle maggiore K 365 nonché il rarissimo Concerto per pianoforte a quattro mani in si bemolle maggiore di Kozeluch incisi a Londra con la Royal Philarmonic Orchestra diretta da Gudni A. Emilsson.

L’attitudine al dialogo e allo scambio reciproco sono necessari per la riuscita finale: quella di Mozart è una musica dove saper cogliere i rimandi, le sollecitazioni, le domande e le risposte è determinante. Dal punto di vista musicale trovarsi in questo sentire è indispensabile per affrontare un repertorio come questo. Al di fuori della musica e del pianoforte fortunatamente andiamo molto d’accordo, il che ci permette di superare tutta una serie di difficoltà che fatalmente nascono fra persone che si frequentano tanto: ci sono dei periodi dell’anno in cui vedo più Marco che mia moglie, abbiamo condiviso viaggi lunghi e spesso si stava via per settimane e mesi. Quindi oltre l’aspetto puramente musicale, strumentale e pianistico, se non si va molto d’accordo, diventa difficile gestire periodi di frequentazione così intensa e prolungata. Insomma, ci sono tanti elementi che costruiscono il nostro matrimonio artistico e che ci permettono dopo quindici anni di continuare a costruire progetti insieme.

 

Quanti dischi prevede il vostro progetto mozartiano?

Il prossimo disco sarà il completamento del progetto iniziato con questo. Il nostro intento è di registrare l’opera integrale dei brani di Mozart per pianoforte a quattro mani, manca la grande Sonata in Fa maggiore K 497, un ciclo di variazioni e altri brani sparsi tra cui alcuni rimasti incompiuti. L’uscita è prevista entro la fine del prossimo anno.

 

Dopo aver inciso il disco “Dances” con le musiche di Johannes Brahms, cosa vi ha avvicinato alle sonate di Mozart a quattro mani? C’è il bisogno di ritornare alla semplicità, di stare insieme dopo questo lungo periodo di separazione forzata dalla musica e dai concerti?

Abbiamo registrato le ventuno Danze Ungheresi e i Valzer op. 39 di Johannes Brahms. Un progetto ambizioso che ci ha dato molta soddisfazione. La pandemia è stata un problema per tutti, ha proprio cambiato e scardinato completamente le abitudini che portavamo avanti da molto tempo. Normalmente facevamo dai quaranta ai cinquanta concerti l’anno e improvvisamente, come tutti, ci siamo dovuti fermare. Inoltre il nostro ultimo disco mozartiano entra in rotta di collisione con la pandemia perché la sua incisione, prevista inizialmente a Salisburgo nella primavera del 2020, è stata ri-programmata e annullata nuovamente nell’autunno del 2020, per ben due volte, a Roma e a Milano; alla fine siamo riusciti a registrare il disco nella metà di marzo del 2021 in piena terza ondata. L’Italia era in zona rossa così ci siamo rinchiusi a Imola nel laboratorio di Fabio Angeletti, fra i migliori tecnici del pianoforte italiani e in questo clima d’isolamento abbiamo inciso il disco. Nel momento in cui siamo andati a suonare sentivamo il bisogno di ritrovarci insieme, ci ha guidato un profondo desiderio di leggerezza e la voglia di ritornare alla normalità e spero che in qualche modo questo si possa cogliere all’ascolto. Nonostante le difficoltà che ci hanno accompagnato in questo periodo, la registrazione di questo disco è stata per noi uno spiraglio di luce.

Abbiamo sperimentato un effetto particolare legato all’ambiente in cui abbiamo suonato. All’inizio si pensava di registrare a Salisburgo dove c’è una sala ampia e spaziosa come a Roma, in realtà poi per causa di forza maggiore ci siamo ritrovati in uno spazio piccolo e intimo e in qualche modo questo ci ha avvicinato agli ambienti in cui molte di queste opere mozartiane sono state pensate ed eseguite originariamente. Una serie di circostanze ha contribuito a guidare il progetto fino a qui.

 

Alla base di una collaborazione artistica vi è un sentimento di amicizia. Suonare insieme, in maniera implicita, vi spinge naturalmente al bisogno di far star bene l’altro. Fare musica alla fine è mettersi in relazione, cosa vuol dire per voi?

Io credo che sia necessario saper distinguere l’esperienza della musica da camera dal duo pianistico e dalle altre combinazioni strumentali che esistono. Sono fermamente convinto che sia fondamentale conoscere questa parte di repertorio anche per chi coltiva il desiderio di suonare come solista perché è appunto un’esperienza di scambio, di confronto e di ricerca musicale che si conduce insieme con altri che non può mancare nel bagaglio delle esperienze di ogni musicista. È vero poi che nel mondo musicale professionistico ci sono alcuni momenti in cui si suona insieme occasionalmente, ma il lavoro di studio e approfondimento del repertorio, di conoscenza reciproca che si porta avanti quando si fa musica da camera con le stesse persone per tanti anni, è qualcosa di completamente diverso.

Dopo tanto tempo ci si conosce talmente bene che si finisce quasi per anticipare le intenzioni dell’altro. A volte capitano in concerto dei momenti in cui nasce un’idea istantanea, Marco ed io ci conosciamo talmente bene ormai che riusciamo ad accordarci in maniera spontanea e naturale. In quei momenti nasce un modo di fare musica insieme che sta su un altro livello, perché attinge da anni di lavoro insieme, di esperienza e si fa musica, consapevoli che la conoscenza personale, l’empatia, e quello che i Jazzisti chiamano interplay, sono quel di più che ci rende unici.

Su Brahms, per esempio, c’è stato un grande lavoro sulla libertà del tempo, su rallentamenti, accelerazioni e ritardi, sulla flessibilità agogica. È cosi che riconoscersi, capirsi al volo, essere sintonizzati è assolutamente cruciale perché al contrario c’è il rischio di ottenere un’esecuzione molto quadrata che non funziona con questo tipo di repertorio. La nostra esperienza di studio così prolungata nel tempo ci ha portato a risultati molto particolari: è come stare su un elastico nel quale ci si ritrova in bilico insieme e quando succede è tutta un’altra musica.

 

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