Mondi chiusi e mondi connessi. Intervista al pianista Han Chen.

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di Alessio Zuccaro

È uno dei pianisti più affermati della nuova generazione: 31 anni, originario di Taiwan ma da tempo residente a New York, Han Chen ha da poco inciso un nuovo disco, Ligeti, Études-Capriccios (Naxos), selezionato dalla rivista Gramophone come uno dei migliori album di musica classica del 2023. Il suo progetto Migration music, lanciato nel 2021, costituisce invece un’originale esplorazione delle storie e delle opere di musicisti migranti. Lo abbiamo incontrato in vista della sua seconda partecipazione a Cremona Musica International Exhibitions and Festival, dove presenterà proprio il disco di nuova uscita.

 

Migration music: cosa significa?

Nel 2020 l’amico e compositore Reinaldo Moya ha invitato diversi pianisti a eseguire una sua opera per pianoforte, The Way North, affidando a ciascuno un movimento della suite. La proposta, giunta in pieno lockdown, mi è sembrata molto stimolante: poi l’idea si è allargata e si è tramutata in un progetto vero e proprio, Migration music, una serie in cui diversi compositori hanno potuto portare la loro testimonianza e suonare la propria musica. Il brano di Reinaldo è diventato il primo episodio.

 

Perché ha intrapreso quest’avventura?

Ero molto interessato a vedere come lo spostarsi dal luogo di origine modifichi il lavoro dei compositori, e che influenza abbia avuto la pandemia. Io stesso ho vissuto a Taiwan per 9 anni per poi trasferirmi a Shanghai per altri 9, e poi a New York, dove risiedo ormai da 13. So cosa vuol dire essere un migrante, insomma.

 

Cosa ha scoperto grazie a questo progetto?

Ho capito che muoversi aiuta a scoprire la propria identità. La maggior parte dei compositori ha raccontato che, lasciato il proprio paese di origine, si inizia a comprenderlo meglio e a vederlo finalmente con obiettività; sorge la necessità di conoscere meglio la propria storia e la propria cultura, che solitamente si danno per scontate. Tutto ciò si riflette nella scrittura musicale; un famoso compositore disse di aver scoperto la Cina solo dopo averla lasciata. In America si parla molto di identità: ebbene, questo progetto mi ha fatto capire come la musica possa unire le persone. Ho scoperto che ciò che mi fa sentire me stesso è essere musicista, non trovare un “modo taiwanese” di esserlo: etichette simili non mi interessano più.

 

Ha appena pubblicato un cd con l’integrale degli Études di Ligeti, brani di grande difficoltà tecnica. A cosa è dovuta la scelta di questo repertorio?

Anche il progetto del disco è nato nel periodo della pandemia. Sentivo la necessità di un’idea che mi proiettasse oltre le difficoltà del momento, qualcosa di veramente impegnativo che mi obbligasse a sedermi ogni giorno a studiare. Avevo già in repertorio qualcuno degli studi di Ligeti, perciò avevo già a disposizione lo spartito (vantaggio non indifferente, considerando la difficoltà nel reperirne di nuovi in quel periodo). A pensarci ora mi sembra di aver vissuto in un sogno: non avevo il senso del tempo, sono andato avanti un poco alla volta ogni giorno finché, a un certo punto, avevo finito. Gli studi di Ligeti hanno un effetto magico: ti danno l’impressione di essere “risucchiato”, non riesci a fare altro, occupano per intero la tua vita durante lo studio. Tutto questo è stato prezioso, in quel periodo, per non sentirmi perso nell’isolamento.

 

Ha qualche consiglio per chi si affaccia alla carriera pianistica?

Ogni pianista è diverso: io sono uno di quelli che ama fare molte cose allo stesso tempo, lavoro molto con i compositori e amo studiare opere sempre nuove. Un consiglio che mi sento di dare è di non aver paura di mettersi alla prova: se non fossi aperto alle novità non riuscirei a fare tutto ciò che faccio. Ad esempio, se mi fossi limitato a suonare soltanto i brani celebri di Ligeti tralasciando quelli minori, non avrei inciso questo CD. Inoltre, molto di ciò che faccio è frutto della collaborazione di diverse persone, ed è fantastico avere tante connessioni: questo è il potere della musica.

 

Quali sono le attività che la completano come artista?

Mi piace molto visitare musei: se non avessi suonato il pianoforte mi sarei sicuramente dedicato alle arti figurative. In particolare, amo andare nelle piccole gallerie e scoprire cose che non comprendo. Non capire è perfettamente normale, è parte dell’esperienza artistica: se hai paura di essere ignorante, non imparerai nulla di nuovo.

 

Per il secondo anno consecutivo sarà a Cremona Musica: che rapporto ha con la città di Stradivari?

Sono davvero grato di poter ripetere la bella esperienza della scorsa edizione. Non ero mai stato a Cremona, ma la conoscevo per la sua storia e la sua importanza nell’ambito della liuteria. Durante il festival, poi, è così piena di attività! Ricordo di aver assistito, tra l’altro, a un concerto di organo davvero impressionante [quello di Cameron Carpenter al Teatro Ponchielli, ndr]. È una grande festa musicale per tutti gli appassionati, come non se vede da nessun’altra parte. Sono felice di tornarci, portando l’esecuzione completa del CD, anche per ritrovare tanti amici che non vedo da quando mi sono diplomato: un ulteriore esempio di come la musica unisca le persone.

 

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