Radici, natura e il valore antico della bellezza. Intervista a Enrico Onofri.

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di Biagio Quaglino

Violinista, direttore, didatta e instancabile studioso di musica del Sei e Settecento, Enrico Onofri è stato insignito del Premio Franco Abbiati della critica musicale come miglior solista del 2018. Da poco ha ricevuto la nomina come Direttore principale dell’Orchestra Filarmonica Toscanini e Direttore associato dell’Orchestra Nazionale d’Auvergne ultimo di tanti incarichi di una carriera costellata da prestigiose collaborazioni in ambito internazionale, ma partiamo dagli inizi:

 

L’ambiente in cui è cresciuto, i suoi dischi preferiti. Da dove viene l’amore per la musica antica?

Mio padre è un artista, dipinge, e nel suo studio ha sempre ascoltato musica classica, accompagnando il suo lavoro ascoltando vinili. Uno dei primi dischi che comprò furono Le Quattro Stagioni di Vivaldi eseguite dai Festival String di Lucerna e la Pastorale di Beethoven – una connessione con la natura che si ripresenterà spesso nella mia vita – e un bellissimo disco di Helmut Walcha, all’organo di St. Laurence ad Alkmaar in Olanda. Sono cresciuto ascoltando questi suoni. Naturalmente l’ambiente sonoro era coadiuvato da quello visivo e culturale che di pari passo mi aiutava e stimolava, perché oltre ad essere pittore, mio padre insieme mia madre è stato un antiquario specializzato in pittura e mobili del Sei e Settecento. Quindi sono cresciuto non solo attraverso suoni antichi, ma anche immagini e oggetti antichi, per di più in una città come Ravenna, una capitale dell’impero romano, che ha una storia millenaria. Ero circondato sia visivamente sia acusticamente da tutto ciò: non poteva andare a finire diversamente. L’idea di riportare un oggetto antico al suo stato originario appartiene dunque alla mia formazione: grazie a ciò ho percorso questa strada.

Ho cominciato a suonare il violino quando avevo quattordici anni e il far musica in quel momento non era entrato ancora nella mia vita – tranne in maniera marginale, poiché c’era un pianoforte a casa che io strimpellavo. Inoltre ho sempre avuto la passione per la fisica, la chimica e l’astronomia, quindi gli aspetti legati all’indagine e alla ricerca, che sicuramente hanno avuto un peso. Trovai un violino nello studio di mio padre, che aveva comprato anni prima. Lo risistemai da me… chissà potevo fare anche il liutaio, (ride!), e così cominciai a suonare, da solo. L’anno dopo, mio padre mi ha iscritto al conservatorio locale dove ho conosciuto un violoncellista e flautista, che è ancora un mio carissimo amico, e che studiava flauto a Milano. M’impartì una lezione di flauto dolce, strumento di cui mi appassionai e studiai poi con lui un anno. Il passaggio al violino barocco fu naturale e immediato: ricordo che andai a Bologna e comprai delle corde di budello – quelle che si riuscivano a trovare all’epoca – e un arco barocco terribile, con i miei piccoli risparmi e con l’aiuto dei miei genitori. Andai al museo bibliografico, che all’epoca era ancora accessibile, a cercare la “sonata per il violino” di Giovanni Paolo Cima: così mi ritrovai fra le mani la stampa originale dei Concerti Ecclesiastici di Cima, una cosa che adesso sarebbe impensabile. È stato uno dei miei primi pezzi, quindi anche lì c’è stato un contatto con il Seicento, anzi addirittura con il primo brano della storia scritto per il violino. Mi trasferii poi a Milano, per continuare i miei studi tradizionali: un’educazione parallela imperniata sul classicismo viennese, poiché il mio maestro Carlo De Martini era un allievo di Sándor Végh, quindi erede della grande tradizione austro-ungarica del Novecento. Questo mi ha permesso di lavorare tantissimo su Mozart e Beethoven, su Brahms e Bartok che, infatti, è un compositore che è rimasto nel mio cuore e al quale ho voluto dedicare un disco recentemente. Anche se la musica antica è stata sicuramente al centro, comunque la mia formazione è stata doppia negli anni della gioventù. Le ragioni per le quali la musica antica è entrata nella mia vita molto presto sono queste.

 

Già da giovanissimo ha collaborato con interpreti come Jordi Savall, Giovanni Antonini e Nikolaus Harnoncourt e da lì ha preso il via la sua fulminante carriera, Quali sono stati gli insegnamenti che le hanno trasmesso, quelli che porta ancora con sé, sia dal punto di vista musicale che umano?

Con Giovanni Antonini sono quasi coetaneo, siamo cresciuti insieme, abbiamo creato il Giardino Armonico, fatto un percorso comune, siamo stati l’uno scuola dell’altro, così come per gli altri membri del Giardino Armonico. Da Jordi Savall ho appreso moltissimo, prima di tutto perché l’ho conosciuto nella mia prima grande occasione internazionale: avevo diciotto anni e suonavo il violino da appena cinque anni, in realtà, quando su suggerimento di Fabio Biondi, che avevo conosciuto mesi prima, Savall volle ascoltarmi e mi prese come primo violino nel Vespro della Beata Vergine, produzione che sarebbe cominciata da lì a pochi mesi. Per me fu un’occasione straordinaria: mi sono visto proiettato dal mondo dello studio, ancora acerbo in realtà, ad un’incisione discografica di un brano importantissimo, un caposaldo, e soprattutto diretto da Jordi Savall.

Da lui ho appreso tantissimo sul rapporto fra testo e musica. Lui dice sempre che “non esiste musica antica ma esistono partiture antiche” e se ci pensiamo bene è vero, perché comunque, anche con l’approfondita conoscenza delle prassi esecutive, della semiografia e di tutto quello che ci aiuta a leggere una partitura, nel momento in cui la eseguiamo siamo noi a farlo, oggi, non possiamo tirarci indietro, e ciò rende moderne queste partiture antiche, anche se cerchiamo di rispettarne il più possibile il linguaggio: il testo originale deve infatti essere sempre al centro della nostra attenzione. Poi, dal punto di vista umano, da Savall ho appreso la pazienza, anche se già connaturata in me. Devo dire che è una persona incredibile, perché anche nelle situazioni più drammatiche in cui qualsiasi direttore spaccherebbe il leggio, riesce sempre a mantenere la calma e a dare un messaggio positivo ai musicisti con cui sta lavorando. Per me è stato un insegnamento fondamentale che mi accompagna ancora oggi.

La persona che mi ha stimolato più profondamente è stato Nikolaus Harnoncourt: dopo pochissimi anni dall’incontro con Savall, ebbi la fortuna di essere invitato a suonare nel Concentus Musicus di Vienna, in una lunga produzione al Festival di Salisburgo, con l’incoronazione di Poppea di Monteverdi. Il programma prevedeva anche il Vespro della Beata Vergine e alcune messe di Mozart, quindi un repertorio che andava dal primo Seicento al classicismo viennese. Per me è stata un’esperienza capitale, potremmo parlare ore su quello che ho appreso da Harnoncourt, ma ciò che ricordo sempre, che per me sarà sempre un modello e che ritrovo anche vicino alla mia natura, è l’idea di una visione. Quando Harnoncourt saliva sul podio e sgranava gli occhi, tu percepivi la visione di tutta la partitura che stava per dirigere, e che lui era lì per comunicartela. La visionarietà di questa persona mi ha profondamente toccato e influenzato. Infine, l’altra cosa che ho imparato da lui è rendere partecipi i musicisti che ho davanti della ragione delle mie scelte. Troppo spesso, secondo me, i direttori arrivano e impongono senza spiegare ragioni. Ovviamente non è sempre possibile per questioni di tempo, spesso spiegare troppo può essere controproducente, però comunque condividere le ragioni fondamentali per le quali si prende una direzione nell’interpretare, nel leggere una partitura, ecco, questa secondo me è un assunto importantissimo per un direttore. Ricordo che la prima volta che misi piede nel Concentus Musicus non suonai una nota, tranne accordare il violino. Harnoncourt parlò tre ore dell’opera, ci teneva di più a spiegare il significato e la relazione che quest’opera aveva con la musica piuttosto che far provare l’orchestra: questo per me è stato un insegnamento veramente fondamentale. Poi, è ovvio che bisogna trovare un equilibrio nel lavoro, anche perché non tutte le situazioni lo consentono.

Un’altra bella esperienza è stato l’incontro con Gustav Leonhardt. Mi ricordo che sono andato un po’ di volte a trovarlo a casa sua, abbiamo parlato, ci sono stati anche dei momenti di dialogo extra musicale. Era una persona straordinaria, antitetica rispetto ad Harnoncourt, però aveva una capacità di calibrare le cose, mettere la giusta quantità di energia, sapeva tantissimo sull’articolazione, sul dettaglio che fa il suono e sullo scavare all’interno di un fraseggio per trovare i micro elementi che lo compongono.

 

Molto è cambiato da quando Nikolaus Harnoncourt diede il via alla Early Music Renaissance. Cosa è cambiato da allora nella didattica e nella ricerca?

C’è sicuramente più consapevolezza nel pubblico rispetto a prima. Purtroppo però, l’Italia in questo senso è sempre stata un passo indietro rispetto al resto d’Europa, nonostante abbia generato alcuni tra i gruppi più importanti che ci sono stati negli ultimi trent’anni. L’Italia, in effetti, guardando la programmazione dei festival, rispetto a paesi come la Francia ha cominciato molto più tardi ad assimilare la Early Music Renaissance. Trovo veramente assurdo che nel paese dove è stata inventata l’opera non ci sia regolarmente in cartellone repertorio operistico del Seicento. In Italia è difficile trovare festival di musica antica, di contro in Francia ogni 20 km si trova un paesino con un suo festival. L’Italia è sempre rimasta indietro e non so dirti in realtà quali siano le ragioni, è un argomento spinoso. All’estero vi è una sensibilità molto più grande: è un repertorio che fa parte normalmente di tutte le stagioni, di tutte le programmazioni.

Purtroppo anche l’historical performance si è standardizzata tanto, ciò è avvenuto ovunque in Europa abbastanza presto, basti pensare come la Gran Bretagna ne abbia fatto da subito una sorta di music factory: “facciamo il Messia di Handel”, “facciamo le Passioni”… con una prova sola. Ora, va bene riempire le sale di questa musica, ma ciò porta spesso ad eseguirla in maniera molto standardizzata. È una tendenza generale che noto anche in alcuni studenti. Chi viene a studiare con me – non tutti ovviamente – vuole delle chiavi di lettura pronte all’uso, mi chiedono: “Come si fa questo?” “Qui il trillo si suona da sopra o da sotto?”, “Qui si fa crescendo o diminuendo?”. Quello che talvolta mi manca oggi è sentire il desiderio della ricerca, che invece esisteva trent’anni fa in chi si metteva su questo cammino.

Lo scopo di un historical performer viene a mancare se si trovano delle formule da applicare senza farsi troppe domande. Nonostante ciò, devo dire che vi sono anche molti studenti autonomamente interessanti alla ricerca, e ciò mi fa molto piacere. Ogni singolo musicista dovrebbe inoltre trovare le proprie chiavi di lettura, ed è nelle fonti che si trova la strada. Non è imitando quello che ha fatto il tuo maestro che puoi comprendere davvero un’opera e che cosa sia la ricerca. Questa è l’impostazione che io cerco di dare ai miei studenti, compatibilmente con i programmi di studio che sono previsti nelle scuole, che in questo senso devo dire sono un po’ limitanti.

 

Lei ha insegnato per tanti anni a Palermo ed è innegabile che la sua presenza abbia contribuito insieme con gli altri docenti a creare una realtà importante che ha visto formarsi molti musicisti. Com’è stata la sua esperienza di didatta nel capoluogo Siciliano? Cosa le ha lasciato in eredità? Qual è stato l’insegnamento più importante che ha voluto trasmettere agli studenti?

Goethe diceva che la Sicilia è la chiave di volta per comprendere l’Italia. Essa contiene in qualche modo tutti i caratteri italiani, sia nella sua realtà fisica sia nella sua gente, quindi è stato un luogo che ha avuto un forte influsso su di me. Palermo mi ha dato calore, collaborazione ed entusiasmo. Per me insegnare in questa città è stata una missione, perché bisogna ammettere che la Sicilia è uno dei territori più difficili d’Italia, lo sappiamo bene. Quindi, quando all’inizio della mia carriera compresi che non avevo quasi più legami con l’Italia dal punto di vista professionale – perché così è stato fino all’anno scorso, quando ho avuto la nomina alla Toscanini – volli mantenere un legame con la mia nazione, e mi sembrò che Palermo fosse un luogo simbolico ideale, e che da lì dovesse partire il mio piccolo contributo all’Italia, per quello che può contare una classe di violino barocco in un conservatorio.

 

Recentemente è uscito anche “Concerti Particolari” sempre dedicato ad Antonio Vivaldi. Qual è l’idea originale da cui nasce questo disco?  

 Ho voluto raccogliere concerti che avessero caratteristiche diverse rispetto alla produzione di Vivaldi più conosciuta. Vivaldi cercava di mettersi al passo con le novità dello stile galante che arrivavano dall’Europa, e che cominciavano a influenzare il linguaggio musicale italiano dell’epoca. Questi suoi esperimenti formali sono veri colpi di genio, per esempio il Concerto “Conca” è un brano programmatico di cui però non abbiamo un testo descrittivo come avviene per Le Quattro Stagioni, un brano interessantissimo e modernissimo in cui Vivaldi trova delle soluzioni avveniristiche che lo collocano fuori dalla sua epoca. Formalmente, Vivaldi sembra sperimentare in musica quello che stava succedendo in altre arti, cioè l’irregolarità, la bizzarria della forma, ma sempre con grande eleganza, come vediamo per esempio nel rococò veneziano. Ho voluto raccogliere dei concerti di Vivaldi che avessero in maniera molto marcata queste caratteristiche di bizzarria formale o di invenzione, ma sempre mediate dall’eleganza, da una sapienza di scrittura che Vivaldi possedeva.

 

Il suo lavoro “Into Nature” con Imaginarium Ensemble, è un disco dedicato a Madre Natura e al suo potere salvifico. Si percepisce una visione sinestesica, fatta d’ispirazioni che evocano suoni, immagini, profumi, sapori e sensazioni. Vivere immersi nella natura è molto importante per lei.

 Adesso vivo sulle colline della Romagna, al confine tra Marche e Toscana, ma quando andai a vivere a Milano – quindi in un luogo antitetico – dal primo istante che vi misi piede ebbi chiaro nella mia testa che alla fine sarei tornato a vivere a contatto con la natura. E appena è stato possibile, l’ho fatto. L’osservazione della natura, dei suoi fenomeni non filtrati e non mediati dalla tecnologia, anche un semplice temporale, influenza il pensiero e il mio tempo. E poi è ovviamente importante ciò che è sempre stato di ispirazione per tutti: i suoni, le immagini, i colori, gli odori, che in qualche modo, soprattutto in una visione sinestesica dell’arte, non possono che toccarci profondamente.

Ho sempre amato la natura e gli animali. I gatti, in particolare, fanno parte della mia vita e sono un esempio straordinario per un musicista: è incredibile quanto s’impara dai loro movimenti. Averli in casa tutto il giorno, osservarli cercando di capire come si muovono, come ottimizzano l’energia, la loro velocità di azione, sono degli spunti veramente straordinari.

Così ho pensato che fosse venuto il momento di rendere omaggio a questo bellissimo pianeta attraverso la musica, e ho cercato di trovare dei brani che trasversalmente avessero a che fare con la natura, con la sua forza. Dopo il clamoroso successo che ebbero Le Quattro Stagioni incise con il Giardino Armonico nel 1993, ho accettato di registrarle nuovamente a patto che fossero comunque inserite in un quadro generale dedicato alla natura, e che non fossero un elemento centrale, ma parte di un discorso più ampio che cominciasse dal Seicento. Quindi ho scelto brani in cui l’imitazione ai suoni della natura è allusiva, non necessariamente descrittiva, o brani in cui ci si ispira alla natura ma in maniera trasversale o sperimentale, attraverso la poesia per esempio, come nello “Chant des oyseaux” di Clément Janequin eseguito in forma strumentale. In questo brano vocale il testo imita il verso degli uccelli attraverso l’uso delle sillabe, quindi è stato un doppio artificio reinventarlo attraverso le diteggiature e l’uso dell’arco, in modo da ritrovare sugli strumenti i suoni evocati dal testo ad imitazione degli uccelli. Un percorso insomma che tocca varie direzioni e livelli rispetto alla natura.

 

Kasanzakis scriveva: “L’uomo deve essere un po‘ pazzo altrimenti non oserà tagliare le corde e liberarsi” Il tema della follia in musica, come segno di malattia e di guarigione, tormento ed estasi. Per fare i musicisti bisogna essere folli?

 È una domanda molto complessa, perché prima dovremmo definire che cos’è la follia. Io credo che esistano dei comportamenti e dei gradi di relazione con il mondo che portano a far considerare delle persone più folli rispetto ad altre. Se essere folli significa liberarsi dalla convenzione, dagli schemi, allora sì: un musicista deve essere folle. Però sempre con attenzione, perché il musicista deve vivere in una sorta di bipolarismo, deve cioè avere la capacità di lasciarsi andare completamente senza freni, come solo un pazzo inteso nel senso tradizionale del termine può fare, ma sempre con una seconda mente che controlla da dietro le spalle, una specie di cane da guardia che sta sempre attento a che la situazione sia sempre sotto controllo nella meccanica del suonare, un’azione tra le più complesse che l’essere umano abbia inventato. È chiaro dunque che bisogna essere in qualche modo bipolari, capaci cioè di essere un’unità divisa, per potersi esprimere liberamente ma al contempo esercitare il controllo. Il discorso è lungo, se ti dovessi rispondere in modo secco, direi: sì, bisogna essere un po’ pazzi! Credo che bisogna essere pazzi per fare il mestiere del musicista (ride!), c’è una certa dose di follia.

 

L’importanza del corpo per un musicista. Questa macchina gloriosa che mi permette di esprimerci. Qual è il rapporto con il suo corpo?

 In questo senso ho sempre detestato i dualismi, non percepisco la mia mente e il mio corpo come divisi. Mi percepisco come un tutt’uno, percepisco la mente come espressione di una ghiandola che si chiama cervello, che sta dentro al mio cranio. Per esempio, lo strumento dei cantanti è la voce: usano il respiro e si rendono conto delle costole che si allargano per emettere e sostenere il suono; attraverso una serie di procedure prendono coscienza del corpo. Ai violinisti purtroppo ciò manca, e agli strumentisti a tastiera anche di più, perché lo strumento ha una natura ancor più meccanica. Si perde molto la percezione del corpo durante gli studi… così succede che per quindici anni ci dimentichiamo di avere un corpo dalle ascelle in giù, pensiamo che tutto dipenda dalle dita della mano sinistra e da come si usa l’arco. Quello che io cerco di far capire ai miei studenti, e che ho provato anche su di me negli anni, è che in realtà è il resto del corpo che fa funzionare la parte superiore, perché se è vero che meccanicamente sono le dita a muoversi e l’arco è messo in moto dalla spalla, però poi senza il supporto della respirazione, ad esempio, è come se cantassimo senza il supporto del diaframma, dell’elasticità. Senza coscienza del corpo il rischio di una sterile meccanicità dal punto di vista artistico è sempre presente. Una certa espressione è legata intimamente alla consapevolezza del corpo.

 

Comunicare, entrare in sintonia con gli altri musicisti. Come si trova nel ruolo di direttore?

In realtà non trovo gran differenza tra dirigere e suonare: ci sono dei limiti oggettivi nell’immediatezza della comunicazione quando l’orchestra supera un certo numero, ovviamente, ma non bisogna perdere l’idea che anche l’ultimo strumentista seduto in fondo alla fila di un’orchestra sta comunque comunicando con i suoi colleghi, solo in maniera più dilatata. Cerco di far entrare in gioco i corpi, la partecipazione fisica di tutti musicisti attraverso il respiro comune e un buon uso dei “neuroni specchio”: il direttore e l’orchestra diventano così un corpo unico.

Non vedo limiti nel fare musica da camera anche in una sinfonia di Mahler. Troppo spesso si contrappone la musica da camera a quella sinfonica. Quando mi metto su un podio di fronte a un’orchestra, cerco dunque di fare comunicare i musicisti il più possibile, mi faccio tramite e facilitatore della loro comunicazione.

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