Il fascino del concetto di zero o vuoto. Intervista a Elvira Muratore.

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di Sebastiana Ierna

Una grande artista i cui lavori nascono dall’idea di musica come esperienza da vivere, fatta di piccoli e precisi gesti, da osservare sempre più in profondità. Una donna semplice, molto interessante, affascinata dal concetto di zero o vuoto, e dalle differenze e similitudini che si riscontrano in diverse culture. Diplomatasi in violoncello e composizione, si perfeziona con noti maestri quali Ivan Fedele, Klaus Huber e Andrea Portera, e collabora con orchestre ed ensemble, fra cui ricordiamo la Polish Baltic Frédéric Chopin Philharmonic, l’Orchestra da Camera del Maggio Musicale Fiorentino, l’Orchestra Sinfonica di Sanremo, Dédalo Ensemble, Boston New Music Initiatives, Vox Novus.

Nel 2008 è stata finalista al secondo concorso internazionale di composizione indetto da ISME (International Society for Music Education) in Belgio, e nel 2011 ha vinto il secondo premio al concorso di composizione Assisi Suono Sacro. Possiamo conoscerla meglio con questa intervista, presentando le sue molteplici qualità.

 

Com’è nata la decisione di essere una compositrice, e cosa significa per te? 

A 13 anni ero affascinata dall’atto dello scrivere musica, e mi divertivo a imitare i pezzi che suonavo, creandone di nuovi in modo molto semplice. A 18 si è concretizzata in me la consapevolezza di voler fare della mia passione il mio lavoro, e sono molto grata al mio primo insegnante di composizione, Claudio Josè Boncompagni, scomparso purtroppo da qualche anno, dal quale ho appreso il contrappunto alla vecchia maniera e tutte le tecniche che tuttora utilizzo. Aver studiato inoltre con Ivan Fedele mi ha formato in modo completo, arricchendomi di nuovi stimoli. Considero la scrittura musicale alla stregua della ricerca matematica, svolta dentro di me: lo sviluppo di un percorso personale che si snoda al pari di un teorema, di cui ne cerco la dimostrazione da sempre.

 

In cosa consiste il tuo linguaggio musicale? 

In pochi gesti puntuali e riconoscibili. Uso strutture che prese singolarmente si possono anche ricondurre alla tonalità, poi sommate danno un risultato diverso, con l’idea di trasmettere i concetti di vuoto, infinitesimo e infinito.

Il fascino per questi concetti nasce durante i due anni dei miei studi universitari in matematica a Firenze, che non sono riuscita a ultimare, perché inconciliabile con la mia attività musicale, ma che desidero in futuro portare a termine.

Semplifico maggiormente: l’infinito è talmente grande, che non lo si può identificare in un numero, perché ce ne sarà sempre uno più grande. Il suo contrario, l’infinitesimo, è così piccolo, pari quasi a zero, ma in realtà quest’ultimo non esiste: è un’invenzione culturale per potersi capire. In questi anni mi hanno colpito tantissimo le diverse sfumature che caratterizzano questa parola. Da noi è negativo perché esprime la mancanza di qualcosa, ma nelle culture dell’estremo oriente è l’essenza della realtà: senza qualcosa da riempire non potrebbe esserci il flusso che genera la vita.

 

Quali grandi maestri ti affascinano maggiormente?

Ascolto Bach (maestro del contrappunto), Brahms, Britten e Arvo Pärt, di cui mi piace la staticità, e mi traghetta in un altro mondo: quasi una terapia per i periodi in cui ho bisogno di ritrovare un po’ di energia compositiva.

 

Come nasce e si sviluppa un tuo pezzo?

Le mie sono sempre linee fluide e non ci sono vere e proprie pause. In musica i vari elementi si compenetrano, e si ha la sensazione di andare verso qualcosa, cercando di raggiungerlo ma senza riuscirci. Si cerca di andare verso l’infinitamente piccolo, il più vicino possibile allo zero, ma non si riesce a toccarlo. Ecco: ciò si rispecchia molto nella mia scrittura. Con il contrappunto inoltre riesco a equilibrare le voci presenti, decidendo io stessa consapevolmente quale far emergere.

 

Tra i tuoi progetti due hanno maggior rilievo: Nomen e Alias. Nel primo c’è come idea di fondo una ricerca sull’identità, e nel secondo la modernità su uno strumento antico dalle molteplici sfumature. Cosa puoi dirci a riguardo? 

Nomen nasce da un’esigenza specifica. Con la richiesta di due brani che dovevano essere eseguiti a breve distanza, ho deciso di scriverli contemporaneamente, con la stessa storia e due ensemble diversi. Ho preso spunto da un’idea particolare: Nomen indica in latino il nome, che per noi rappresenta l’identità delle cose, ma in giapponese è la maschera bianca usata nel teatro nō. Gli attori, indossandola, sono costretti a sfruttare ogni mezzo possibile, come per esempio i giochi di luce, non potendo far trasparire le proprie emozioni con le espressioni facciali.

Dunque, nel mio progetto la maschera è l’idea musicale, adattata per vari organici, e al momento ne esistono tre versioni: una per orchestra da camera, una per archi e una per archi e arpa.

Molto interessante! E Alias com’è nato? 

È un progetto in divenire, nato davanti a un piatto di tortellini con l’amico Valerio Losito, violista barocco, per cui ho scritto un pezzo sul quinto carme di Catullo. L’ho chiamato per parlare di nuove collaborazioni future, e l’idea di scrivere una serie di brani che mostrassero le diverse facce del concetto di amore (umano, divino, idealizzato), attraverso la viola d’amore, è nata proprio da lui. Abbiamo scelto insieme dei testi dalla grande letteratura mondiale a cui ispirarci, e così è stato realizzato il disco Alias,Amor, prima parte del nostro lavoro.

 

C’è un pezzo a cui sei più legata? 

Per me sono molto importanti i primi due Nomen, perché mi hanno donato una maggior chiarezza per quanto riguarda il mio linguaggio musicale. È stato un momento importante di consapevolezza. Anche Alias Narciso in versione orchestrale è nel mio cuore, poiché la sua esecuzione in Grecia è stata meravigliosa, un’esperienza umanamente unica.

 

E uno strumento in particolare attraverso il quale puoi dare voce alla tua creatività? 

Prediligo molto gli archi, e quando ho scritto per la viola d’amore ho avuto la possibilità di approfondire tecniche che poi ho trasferito anche sugli archi odierni.

 

Tra le tue tante esperienze sia all’estero che in Italia cosa ricordi maggiormente? Hai mai avuto problemi in quanto donna? 

Mi ritengo molto fortunata, perché ho sempre collaborato con musicisti estremamente disponibili e ricchi di tanto entusiasmo. In Grecia e in Turchia mi sono sentita come a casa, e dipende tanto da chi organizza e dal direttore d’orchestra. Non ho mai vissuto situazioni discriminanti, e credo proprio che non si debba dare importanza a certe cose. Conta tantissimo svolgere il proprio ruolo con sincerità artistica.

 

I mesi di pandemia, che stiamo vivendo, hanno apportato dei cambiamenti nelle nostre vite.  Come hanno influito su di te? 

Durante il primo lockdown ho cercato di tirar fuori tante energie, importanti per la quotidianità. Mi sono sentita in una strana dimensione, mi è mancato molto viaggiare, e ho sfruttato i social per rimanere in contatto con amici e colleghi, in particolare con coloro i quali vivono all’estero, in paesi lontani.

 

Come ti vedi in futuro? 

Non mi vedo tanto diversa da adesso. Sono molto contenta della mia vita: scrivo, gestisco una scuola di musica, ho scoperto una passione sfrenata per la montagna. Nella vita bisogna vivere passo per passo, e apprezzare le gioie che giorno dopo giorno si presentano.

 

Cosa consiglieresti alle giovani compositrici? 

Di rapportarsi agli altri per quello che loro possono insegnarci, perché si può sempre imparare dalle esperienze in generale, positive o negative. Ognuno di noi ha il proprio percorso, ed è giusto imparare a cosa dare importanza, prendendo spunto dalla personale quotidianità. Ciò che importa è sentirsi bene con se stessi e avere maggiore consapevolezza di ciò che si fa, liberandosi dal peso della parola carriera.

 

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