Sostenere la cultura, abbracciare il mondo. Intervista a Ludovica Rossi Purini.

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di Ruben Marzà

Non ama la parola mecenate, Ludovica Rossi Purini: il termine rimanda secondo lei a una distanza, a un guardare il mondo dall’alto che mal si addice alla sua energica curiosità e al suo impegno multiforme e instancabile. Lei il mondo lo ha visto e toccato da vicino, a volte nei suoi risvolti più drammatici, con esperienze nei campi profughi dell’est Europa e portando musica nelle carceri e negli ospedali. Romana, laureata alla Sapienza con una tesi in Diritto costituzionale, organizzatrice e promotrice di numerosi festival musicali in Italia e negli Stati Uniti, nella sua attività coesistono la professione giuridica, la passione per la musica e l’attenzione alla dimensione sociale e benefica della cultura. L’abbiamo incontrata dopo la sua partecipazione a Cremona Musica International Exhibitions and Festival, dove ha presenziato all’anteprima del progetto multimediale Istante Dante, di cui cura la promozione a livello internazionale.

 

Dottoressa Purini, la sua formazione giuridica è suggellata da una laurea summa cum laude all’Università La Sapienza di Roma. Quando è arrivata la passione per la musica?

C’è sempre stata, pur essendo figlia di due professori di Architettura e quindi cresciuta in una famiglia più incline alle arti visive: ho avuto il privilegio di essere presente, da bambina, all’inaugurazione della storica mostra sul Futurismo a Palazzo Grassi a Venezia, nonché di vivere a Gibellina, dove i miei erano stati chiamati a contribuire alla rinascita della città terremotata. Ma è sempre stata la musica ad appassionarmi. Da ragazzina avevo la tessera Agimus e non mi perdevo un concerto; ho anche studiato e cantato nel coro di don Pablo Colino, ma la mia è sempre rimasta un’educazione musicale di base. Forse si è attratti proprio da ciò che ci incuriosisce: la lettura musicale, la capacità di trasformare segni sulla carta in arte sonora ha per me qualcosa di magico e misterioso, e anche per questo guardo con grandissima ammirazione chi riesce a farne una professione.

 

Proprio l’incontro con grandissimi professionisti della musica è stato per lei cruciale…

Ho avuto la fortuna di frequentare artisti come Claudio Abbado e Lorin Maazel: mi sono letteralmente imbevuta del loro modo di vivere la musica e di comunicarla. Penso alle conversazioni sulla programmazione dei Berliner con Abbado, piene di riferimenti alla letteratura tedesca (che amo moltissimo), o alle intuizioni e all’empatia di Maazel nel saper lavorare con i giovani. È triste pensare che entrambi non ci sono più, ma sono grata a questi giganti per aver lasciato un’impronta indelebile su di me e sulla mia visione del mondo.

 

Due esempi di come un grande artista possa essere anche un grande comunicatore, capace di arrivare a un pubblico molto più vasto di quello a cui tradizionalmente si rivolge la classica.

Credo si debba distinguere tra la capacità di ascoltare musica da un punto di vista intellettuale – difficile e ristretta, per forza di cose, a chi abbia ricevuto un’adeguata preparazione – e l’ascolto che potrei definire empatico, o emotivo, che invece non richiede nulla se non trasporto e apertura. Tutti i progetti educativi degli ultimi decenni ci confermano come il medium musicale possieda un forte grado di immediatezza, e possa essere persino strumento di inclusione e progresso sociale.

 

La sua passione è presto diventata un impegno concreto per ideare e sostenere progetti musicali. A quali è più affezionata?

Ho fondato e sono stata a lungo presidente della Compagnia per la musica in Roma, un’associazione senza scopo di lucro che ha sostenuto numerosi artisti e realtà culturali in Italia e all’estero: ricordo di aver ospitato un fantastico evento con Nuria Schönberg che parlava di suo padre Arnold e del marito Luigi Nono. Sono anche orgogliosa di aver portato in Italia nel 2006, grazie alla Compagnia, i September Concerts, che si svolgono ogni 11 settembre in tutto il mondo e che vedono la musica non in funzione commemorativa, ma come celebrazione di pace e fratellanza. Abbiamo diffuso musica negli ospedali e nelle carceri: la musica è innanzitutto condivisione (termine oggi abusato e ormai associato al contesto economico), e mostra al meglio il suo potere proprio nelle situazioni di disagio. Altro tema importante è il rapporto tra musica e territorio: sono felice di far parte del consiglio direttivo del festival Nei suoni dei luoghi. Poi, da brava figlia di architetti, il progetto a cui sono più affezionata sarà sempre il prossimo!

 

Proprio come una casa, mai uguale a se stessa e in continuo divenire… in questo caso, qual è il prossimo progetto?

Sto curando un ciclo di concerti, iniziato il 7 ottobre, a Kitzbühel, la cittadina del Tirolo austriaco dove vivo da 10 anni, nota località sciistica tradizionalmente votata allo sport. Ogni evento sarà ispirato a una stagione e la musica sarà non solo suonata, ma anche raccontata: tengo molto a questo tipo di approccio, avendo notato che spesso all’origine della diffidenza verso la musica classica c’è la paura di non capire. Mi piace l’idea di raccontare la musica e la bellezza del suo essere un linguaggio in continuo gioco tra regola e invenzione: è un po’ come prendere per mano chi soffre di vertigini e aiutarlo ad attraversare un ponte.

 

Quando poi la musica si unisce ad altre forme d’arte, come nel caso del progetto Istante Dante, le sue possibilità comunicative si moltiplicano.

Esatto! Sono molto fiera di poter dare il mio contributo alla diffusione internazionale di questo magnifico lavoro, capace di coinvolgere musica, videoarte e scultura e di rileggere un’opera cardine della letteratura di ogni tempo grazie all’opera di giovani compositori e musicisti – senza dimenticare la splendida statua di Giorgio Conta! Spero, in particolare, di riuscire a diffondere il progetto negli Stati Uniti, dove c’è grande interesse per la cultura italiana e dove mantengo legami importanti. Ma il mio cuore guarda anche all’Europa dell’est e all’area balcanica: a Belgrado ho lavorato per tre mesi in un campo profughi, studiando la rotta balcanica e il sistema di accoglienza di Trieste, per un Master in Progetti umanitari; mentre un altro Master, stavolta in Teoria critica della razza e studi romani [rivolti alla popolazione rom, ndr], mi ha portata in Romania.

 

Una risposta che apre prospettive vaste su tematiche di grande attualità. Di cosa si è occupata esattamente in questo secondo Master?

Con “teoria critica della razza” si intende tutto ciò che riguarda la componente pregiudiziale nell’approccio a una particolare popolazione. Nel caso dei rom, possiamo considerare ad esempio il ritratto iper-sessualizzato della donna zingara, veicolato anche in campo artistico – pensiamo solo alla Carmen di Bizet.

 

Nella sua attività convivono, e spesso si intrecciano, interesse socio-umanitario e sostegno alla cultura. Potremmo considerarla una sorta di moderna mecenate?

Non ho mai amato questa etichetta: ho sempre avuto la sensazione che mi ponesse, specie in momenti di generale crisi economica, nella posizione di chi può, su una sorta di piedistallo. Non mi piace pensarmi diversa, ma se posso sostenere o contribuire a diffondere un progetto che mi appassiona, cerco di farlo con tutte le mie forze. Nel caso di Istante Dante, ad esempio, mi sono innamorata della scultura di Giorgio Conta, ma anche della sua storia personale: l’amicizia del padre con Arturo Benedetti Michelangeli [padrino di Conta, ndr], l’incontro fra diversi linguaggi artistici, il rapporto con la montagna e i suoi materiali. Ma i mecenati erano altra cosa. Quello che spesso cerco di fare è coinvolgere aziende che vogliano percorrere nuove strade e affacciarsi al mondo della cultura: mi sono accorta che quando la proposta si lega alla solidarietà riscontra sempre grande fortuna. Alla fine restiamo esseri sociali, e siamo interessati al benessere di tutti.

 

Ci piace pensare che l’arte vada di pari passo con un certo impegno morale e sociale, e che chi se ne occupa possieda una speciale sensibilità…

Sì, ma al tempo stesso non possiamo guardare agli artisti come a figure morali, né aspettarci che ognuno di loro sia un santo: quello che conta è la possibilità di crescere e migliorare noi stessi grazie all’arte e al messaggio che essa veicola. La musica in particolare, soprattutto nella sua dimensione collettiva, incarna un’idea di società come gruppo equilibrato e progressista, e in questo il suo valore non ha eguali.

 

Una curiosità, infine: se potesse suonare uno strumento, quale sceglierebbe?

Non ho alcun dubbio: il violino!

 

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