Il musicista zen. Intervista a Eric Schoones.

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di Alessio Zuccaro

Quando Shunryu Suzuki, negli anni Sessanta, faceva conoscere la filosofia zen all’Occidente, forse non immaginava la rivoluzione che ne sarebbe seguita e gli innumerevoli ambiti su cui avrebbe esercitato un’influenza profonda, dagli scrittori della beat generation agli odierni arredamenti minimalisti. Eric Schoones, 63 anni, pianista e scrittore olandese, ha saputo tradurre in musica questa visione del mondo: autore del libro Walking up the Mountain Track: the Zen Way to Enlightened Musicianship [Salendo il sentiero di montagna: la via zen del musicista illuminato, Agreeable Place Publications, 2017 ndr], recentemente tradotto in tedesco per l’editore Schott, è direttore di Pianist, rivista distribuita in lingua olandese e tedesca. Sarà ospite dell’edizione 2023 di Cremona Musica International Exhibitions and Festival, membro di spicco della nutrita schiera di giornalisti che ogni anno giungono alla kermesse lombarda da ogni parte del mondo.

 

Come ha incontrato il pensiero zen?

È accaduto grazie a Jacques De Tiège [illustre pianista e didatta scomparso nel 2022, insegnante, tra gli altri, di Leif Ove Andsnes e Yuja Wang, ndr]. Ho avuto l’onore di studiare con lui e ricordo che molto spesso mi parlava dello zen e dei grandi maestri del passato, argomenti che trovai subito affascinanti. Ora sono convinto che si possa imparare molto dagli insegnamenti dei saggi, dal modo in cui gli orientali trovano connessioni tra le arti, da prospettive peculiari come il suggerimento di non focalizzarci sul nostro ego. Penso sia molto importante, per un musicista, aprirsi a queste idee.

 

Il suo libro parla di enlightened musicianship, una “pratica musicale illuminata”. Cosa significa?

Naturalmente si lega al concetto di “illuminazione” che si trova nella tradizione zen, il cosiddetto satori. Tuttavia non bisogna pensare a un miracolo, non si tratta di una comprensione improvvisa né permanente. Quando si è perfettamente preparati – padroni dello spartito e dello strumento – le dita sanno già cosa fare: solo a quel punto puoi veramente lasciarti andare, come se a suonare non fossi più tu. Potremmo dire, allora, che lo strumento “si suona da sé”. Un famoso esempio di ciò si trova nel libro Lo zen e il tiro con l’arco di Eugen Herrigel. Dopo un impegnativo allenamento in quest’antica arte durato ben quattro anni, avviene la magia: la freccia si scocca da sola. Ma quello che il libro insegna è che non c’è magia senza preparazione.

 

Un lungo percorso di esercizio, quindi.

Esatto. Nello zen si dice che “la strada è più importante della meta”, e trovo fondamentale applicare questo insegnamento alla nostra vita di musicisti: le lunghe giornate di studio sono più importanti del singolo concerto. Ne ho parlato con molti colleghi, e tutti concordano su questo aspetto.

 

Ho potuto rilevare qualcosa di simile nella mia esperienza di pianista: nell’atto dell’improvvisazione, ho spesso la sensazione che il brano si crei da solo, e che sia io stesso a diventare strumento, ancor più del pianoforte. È ciò di cui scrive Herrigel?

Assolutamente sì. Nell’improvvisazione vengono saltate le fasi di apprendimento e assorbimento dello spartito, dunque il risultato è qualcosa di più puro e diretto. Ci tengo a precisare che un musicista classico può vivere la stessa esperienza, ma solo quando conosce perfettamente la partitura. Numerosi colleghi, d’altronde, concordano nel dire che durante il concerto non può mancare lo spazio per l’imprevisto, l’inaspettato. In un’intervista a Leif Ove Andsnes, aggiunta nell’edizione tedesca del mio libro, si evidenzia proprio questo aspetto: anche dopo venti recital con lo stesso programma, può sempre accadere qualcosa di inatteso. Lungi dall’essere elemento di frustrazione, è proprio l’imprevisto a rendere unica l’esecuzione dal vivo: è uno stimolo a trovare soluzioni creative che arricchiscono la tua conoscenza del brano.

 

Sono famose le storie zen sul rapporto tra maestro e allievo, spesso piuttosto sorprendenti per la nostra cultura: l’insegnante che coglie di sorpresa l’alunno con suoni e colpi improvvisi, aforismi criptici e paradossali per sfidare le sue capacità di ragionamento. Ha mai applicato i principi di questa filosofia alla pedagogia musicale?

Non in modo sistematico. Mi viene in mente il metodo di studio di Rachmaninov: estremamente lento, ma con grande consapevolezza e cura per ogni nota (un concetto espresso anche da Dinu Lipatti, grande pianista rumeno morto a soli 33 anni). Una vera e propria “presenza” in stile zen. Tuttavia, in linea di principio sconsiglierei di picchiare gli allievi con un bastone di bambù! [ride, ndr]

 

Quale dovrebbe essere, a suo parere, lo scopo del fare musica?

Nell’intervista a Maria João Pires, presente nel mio libro, la pianista portoghese esprime il ruolo spirituale che l’arte dei suoni ha nella nostra vita: «è la nostra via per comprendere il mistero dell’universo. La musica è specchio di quel mistero». Per me ha un’importanza fondamentale: rende la vita bellissima, aiutandoti a trascendere e arricchire la quotidianità. Maurice Ravel pose come epigrafe nei suoi Valses nobles et sentimentales la seguente citazione del poeta simbolista Henri de Régnier: «…il piacere delizioso e sempre nuovo di un’occupazione inutile». La musica è questo: non ha uno scopo, e allo stesso tempo è la cosa più importante che ci sia.

 

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