Il sogno americano: intervista al violinista Ruggero Allifranchini.

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di Viola D’Ambrosio

Ruggero Allifranchini è uno di quei rari musicisti che quando suona riesce a fermare il tempo e lo spazio: ogni nota diventa una storia da raccontare, un’emozione da vivere in attesa di quella successiva. Ad appena diciotto anni si trasferisce negli Stati Uniti: gli inizi non sono facili, si ritrova catapultato in una società completamente diversa, senza conoscere la lingua e lontano dagli affetti. Sono anni di sacrifici ma anche di grandi soddisfazioni che lo porteranno a confrontarsi con i migliori musicisti in circolazione. Nel 1989 è tra i fondatori del celebre Quartetto Borromeo con cui si è esibito in Europa, Nord America, Sud America, Sud Africa, Cina e Giappone. Dopo quasi un ventennio come spalla alla Saint Paul Chamber Orchestra è l’attuale spalla dell’orchestra del Mostly Mozart Festival al Lincoln Center di New York e alla Phoenix Symphony.

Da un piccolo paese in provincia di Novara a Filadelfia il passo non è affatto breve. Ci racconta cosa l’ha portata dall’altra parte del mondo?

Tutto accadde per una concatenazione di eventi fortuiti. Avevo 17 anni e da un anno suonavo nei Solisti Aquilani dove, nello stesso periodo, si trovava anche un violoncellista americano David Cole. Suo padre, Orlando, insegnava violoncello alla Curtis (tra le più importanti scuole di musica al mondo) e alla New School of Music (su modello della Curtis) a Filadelfia. Quando venne all’Aquila a trovare David, mi chiese di suonare per lui. In un certo senso fu un’audizione a mia insaputa e prima ancora che io finissi l’esecuzione aveva scritto una lettera di raccomandazione alla New School per farmi fare la domanda di ammissione. Ho fatto l’audizione mandando una mia registrazione (non c’era ancora internet!), sono stato preso con borsa di studio e sono partito poco dopo per Filadelfia. A semestre già iniziato, ho cominciato a studiare con Jascha Brodsky e un anno e mezzo dopo sono stato preso alla Curtis nella classe di Szymon Goldberg.

 

Cosa rende la Curtis una delle scuole di musica più prestigiose al mondo?

Innanzitutto è la grandezza di un’orchestra, in totale parliamo di circa 150 studenti, se si considera anche l’opera, cantanti e classi di pianoforte. È la scuola più selettiva che esista; tante prime parti delle più importanti orchestre vengono da lì. Per citare due italiani, mostri sacri della musica del Novecento, ricordiamo Nino Rota e Gian Carlo Menotti. Non esiste un corrispettivo con nessun’altra scuola al mondo.

 

Alla Curtis gli studenti presentano più di duecento concerti l’anno e si confrontano con talenti provenienti da tutto il mondo. Questo fa pensare a quanto diversa sia la situazione nei conservatori italiani: qual è il tassello mancante?

È impostato in un modo completamente diverso. Penso che il sistema migliore sia quello a piramide dove all’inizio tutti devono avere eguale accesso alla musica e poi ci deve essere un punto di smistamento dove ai talenti vengono date le opportunità giuste per progredire. Alla Curtis arrivano quelli di talento che sono già pronti per una carriera. Questa è la differenza con i conservatori italiani, dove ragazzi alle prime armi si ritrovano a suonare con giovani talenti senza fare distinzione. In Italia si inizia a fare musica da camera troppo tardi e questo è un peccato perché per un musicista la cosa più importante è imparare a suonare insieme agli altri. Nelle scuole medie e superiori americane è molto radicata la cultura delle orchestre e si insegna l’importanza del fraseggio fin da piccoli. Ricordo ancora le prime prove in quartetto alla Curtis: il livello di profondità musicale ed emotivo è stato scioccante per me, nessuno me lo aveva mai insegnato.

 

Ci racconta del rapporto che il pubblico americano ha con la musica classica e con le orchestre?

Gran parte degli appassionati di musica classica che va ai concerti e compra i biglietti si sente parte di quella realtà musicale e la sostiene in tutti i modi, anche con le donazioni. Il pubblico vive la propria orchestra con un forte senso di appartenenza e di fierezza. In America c’è molta possibilità di suonare perché c’è una cultura più radicata, anche se paradossalmente è più recente di quella europea. Tutte le città hanno stagioni di musica da camera e questo significa che c’è un pubblico per ogni nicchia. La fortuna per gli Stati Uniti è stato l’esodo dei grandi musicisti in fuga dall’Europa in seguito alla Seconda Guerra Mondiale, Bartok e Schoenberg solo per citarne un paio.

La sua carriera l’ha portata a suonare nei più prestigiosi teatri del mondo, dalla Carnegie Hall di New York al Musikverein di Vienna. Qual è stato il concerto più significativo per lei?

Ce ne sono tanti, è difficile decidere. Forse alla Philarmonie di Berlino e al Concertgebouw di Amsterdam con il Quartetto Borromeo ma perché era la prima volta per me in quelle sale. A pensarci bene anche il primo concerto che ho fatto in Giappone negli anni ‘90 alla Suntori Hall. Era il mio primo concerto in Asia e ricordo di essere rimasto scioccato dal cambiamento culturale. Dal palco una miriade di capelli neri: non c’erano variazioni di colore (ride)! Inoltre, il silenzio surreale tra un movimento e l’altro e il rumore alla fine, come un’esplosione che non può più essere contenuta. Poi ovviamente c’è New York che è sempre un posto magico dove suonare e penso che dia questa sensazione a tutti i musicisti. C’è ogni volta un’energia diversa che ti rende consapevole e ti elettrizza.

 

Dopo aver suonato su molti Guarneri e Stradivari ha dichiarato di essersi innamorato di un violino moderno (Sam Zygmuntowicz).

È strano ma non ho mai pensato al Sam come a un violino moderno. C’è questo pregiudizio che i violini moderni siano inferiori agli strumenti antichi. Io trovo che sia uno strumento senza limiti, che mi permette di esprimere il mio suono e dare vita alla mia voce. Pur avendo suonato esclusivamente su uno Stradivari per 17 anni (ricevuto dalla Stradivari Society di Chicago) e avendone provati molti altri, penso che il Sam sia un grandissimo strumento.

 

Com’è cambiato il mondo della musica oggi?

La differenza tra questa e la mia generazione è che oggi i musicisti sono molto più attivi nella società. Quello che noto con piacere nelle nuove generazioni è che sono più malleabili e aperti alle novità. Qualche giorno fa ho ricevuto un’email dal Lincoln Center per la partecipazione ad un community impact planning meeting (incontro per pianificare strategie d’impatto sulla comunità locale). Questo è il perfetto esempio di quanto le cose siano cambiate nel mio mondo e di come ai musicisti di oggi venga richiesto anche uno spirito imprenditoriale. Un altro punto molto importante è che se non si lavora per creare un pubblico, non ci saranno più concerti. In Italia ci si focalizza su come organizzare concerti ma non su come richiamare il pubblico e fidelizzarlo.

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