La forza creatrice della fragilità. Intervista con Valerio Losito.

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di Biagio Quaglino

Violinista barocco e violista d’amore, romano, classe 1980, dopo lo studio del violino moderno con Yvonne Ekman presso il Conservatorio di Musica “Santa Cecilia” di Roma, Valerio Losito approfondisce la prassi esecutiva storica dedicandosi principalmente alla musica antica. Fra i violinisti italiani che hanno segnato la sua formazione, si annoverano maestri come Enrico Gatti, Luigi Mangiocavallo, Federico Gugliemo e, primo fra tutti, Enrico Onofri con cui si è perfezionato in violino barocco al Conservatorio Bellini di Palermo, oggi re-intitolato al compositore palermitano Alessandro Scarlatti.

Fin da giovanissimo ha collaborato con numerose orchestre barocche e prestigiose formazioni musicali in qualità di spalla e solista. Con molte di esse ha girato il mondo, esibendosi in tutta Europa, Giappone, America del Nord, Panama, Messico.

Per Tgmusic.it lo abbiamo incontrato a Siracusa in un caldo pomeriggio di luglio, nello splendido chiostro del Convento dei Cappuccini, in occasione dei concerti e corsi estivi organizzati dall’Orchestra Barocca Siciliana, realtà musicale di lunga tradizione che, guidata dal direttore artistico Luca Ambrosio, negli ultimi anni ha lavorato intensamente nella divulgazione del repertorio storicamente informato.

 

Si dice “Non c’è due senza tre”. e infatti per il terzo anno consecutivo è presente a Siracusa, con progetti diversi e molto stimolanti che coinvolgono numerosi musicisti da tutta Italia in grandi formazioni, come per i Concerti Grossi di Corelli durante la scorsa estate, e il Combattimento di Tancredi e Clorinda di Monteverdi di quest’anno.

Cosa ha significato per lei questa esperienza di musica d’insieme, da un lato, e di “direzione” con il violino in mano, dall’altro?

Non sono un direttore propriamente detto, come si potrebbe intendere in epoca moderna: non ho approfondito la tecnica di direzione con la bacchetta o con le mani. Ho cercato di dirigere il gruppo (composto da più di trenta elementi come nel caso del concerto corelliano dell’anno scorso) come sarebbe accaduto nel Settecento: dando tutti i “segnali” necessari per un’esecuzione “ben regolata” – come allora si sarebbe detto – e, nello stesso tempo, tracciando la via, rimodulando sul momento il suono dei miei colleghi. Una direzione musicale che assomiglia all’azione di un “coordinatore” più che a quella di un “direttore” modernamente inteso.

Il ruolo chiave lo ha il rapporto di fiducia che si instaura con i musicisti. Quando entra in gioco la fiducia, i tuoi colleghi sanno che tu li traghetterai verso un porto e tu sai che ognuno di loro farà la sua parte, mentre tu conservi, anche a loro beneficio, la visione d’insieme. Quando si suona assieme ti devi fidare, e si avverte immediatamente se la fiducia manca o se essa è incerta, naturalmente a scapito di una bella esecuzione.

Sono sempre più convinto che una bella esecuzione non sia necessariamente priva di errori. Lo scopo finale è essere credibili, non perfetti. Come direttore punto proprio a questo, sapendo che la perfezione tecnica e formale è una meta cui tendere e non un una sorta di feticcio cui tributare onore.

 

Osservandola durante le prove, ho visto il saper rinunciare alla perfezione a favore del costruire insieme un’esperienza di bellezza. Come vede il suo ruolo di facilitatore/maestro concertatore?

Mi sento un testimone, non un direttore, non un capo. Non ho la pretesa di possedere una “verità” interpretativa, posso dire che sento dentro di me un mondo che risuona e desidero comunicarlo. L’unico modo per renderlo comunicabile è che sia credibile. A me interessava, suonando, che l’orchestra percepisse la credibilità oltre che la bellezza. Se è credibile è anche bello, ed è anche divertente.

 

Qual è stato il suo principale obiettivo?

Fare qualcosa di nuovo. A Siracusa ho voluto fare un esperimento musicale, verificando le teorie sui metronomi antichi e lavorando sul concetto di lentezza come noi la intendiamo oggi. In realtà, all’epoca, i contemporanei non si ponevano il problema: per loro quello era il tempo normale. É stata una sfida musicale e un esperimento psicologico, perché c’è stata la disponibilità di tutti ad abbandonare le proprie abitudini musicali per cercare insieme un’altra via. Sono due le strade: tentare di copiare interpretazioni altrui o tornare alla musica antica suonando coi tempi filologici.

 

Su cosa si basa la sua ricerca?

Quando insegno a L’Aquila, studio con i miei allievi le partiture, e insieme ci accorgiamo che è già tutto scritto, direttamente o indirettamente. Alle soluzioni si arriva per evidenza, per deduzione o induzione. Per esempio: una linea di basso continuo molto acuta non potrà sostenere un passaggio particolarmente forte del violino. Oppure avere nel basso continuo un numero per ogni croma significa che il brano non potrà essere tanto veloce, e così via.

Sono ancor più convinto che sia necessario tornare a una specie di ecologia dell’esecuzione della musica antica. Non ideologia, ma ecologia, che è diverso. Abbiamo vissuto dei momenti in cui convivevano prospettive del tutto contrapposte: la scuola tradizionalista contro la scuola progressista, i milanesi contro i romani, gli integralisti contro i “mezzosangue”. Secondo me ormai è finito il tempo delle divisioni, ed è necessario soltanto tornare a suonare musica barocca, senza prescindere dagli strumenti originali e da una vera conoscenza filologica.

 

Cosa intende per “ecologia” musicale?

 Sostanzialmente il medesimo concetto riferito all’economia della natura e all’interazione con essa dell’essere umano. Provando a tradurre in termini musicali, la prima definizione di “ecologia” data nell’ottocento da Haekel, potrebbe essere intesa come  il complesso di quelle interrelazioni dei musicisti con la partitura, e dei singoli musicisti tra loro, che pur mirando ad una creazione “di gruppo” talvolta risente di una sorta di “lotta per la sopravvivenza”. In questo gioco di analogie la partitura corrisponde alla Natura, che va rispettata e con cui si collabora nello sforzo creativo individuale!

 

Quindi è importante lo studio sulle fonti originali?

 È fondamentale. Ho sempre fatto ricerca, per curiosità e conoscenza. Mi diverte moltissimo andare in biblioteca per cercare brani inediti. All’inizio della mia carriera l’ho fatto per costruire il mio repertorio e per avere una panoramica ampia sui manoscritti di una biblioteca o di un’area geografica, poi è diventata una ricerca di suono.

La svolta importante per me è avvenuta quando ho scoperto un nuovo approccio alla velocità o alla lentezza dell’esecuzione della musica antica, anche grazie a Lorenzo Biagini, un collega e amico preziosissimo. Mi diceva: «Valerio qua abbiamo sbagliato tutto per anni» portandomi le varie prove, ricerche filologiche sulle fonti, sulle prime indicazioni di metronomo. E aggiungeva: «renditi conto che tutto andrebbe suonato più lento».

 

Dopo questa scoperta cosa è successo?

 È arrivato il lockdown, che per quanto sia stato un momento problematico per tutti, una prigionia sia pure necessaria, ha tuttavia portato qualche frutto di sicuro interesse. Il fatto di doversi fermare mi ha portato a riflettere sulla necessità di volere un’esecuzione “vera”, non una ricostruzione archeologica. Non mi interessa ricostruire un oggetto da museo, mi interessa, invece, arrivare a ragionare come se fossimo nel Seicento e nel Settecento, e suonare secondo quei parametri, secondo quella concezione del mondo. Quando a causa della pandemia ci siamo dovuti fermare, sono emerse idee nuove e ho capito che la musica è anzitutto suono e timbro e credo che la ricerca timbrica sia il tratto distintivo dell’esperimento di Siracusa.

 

È un approccio in continua evoluzione quindi?

 Se dovessimo fare una semplice ricostruzione archeologica, agiremmo come se fossimo dei burocrati del violino barocco: l’archetto così …, le corde colì…, spesso rinunciando a fare musica in ossequio a una bandiera ideologica. Si badi bene: la mia non è un’accettazione di qualsiasi tipo di cialtroneria riguardo allo strumento o allo stile esecutivo. Rimane inteso e sempre premesso, che la filologia degli strumenti e del linguaggio esecutivo debba essere rigorosissima. Un approccio ideologico (a volte velatamente politico!) poteva avere un senso quando negli anni Ottanta e Novanta bisognava ricostruire un mondo, ciò non è assolutamente da rinnegare, ma va necessariamente ricontestualizzato.

 

Cosa è cambiato per i musicisti di oggi?

 A noi che siamo i figli di quella generazione, questo atteggiamento ha dato la libertà di poter cominciare a sperimentare, a volte andando verso i tempi cosiddetti moderni, tempi velocissimi. Adesso è necessario considerare questa musica con un altro respiro, con altri tempi, altre velocità. È possibile così comprendere perché di Corelli si dicesse che aveva il suono “come di una dolce tromba”, per significare che stava con l’arco attaccato alle corde utilizzando un certo tipo di pressione, di forza, per tirar fuori un suono ricco di armonici a fronte di una inevitabile esecuzione lenta. Quando si parla di “cavata”, dell’arco attaccato alle corde di Vivaldi, ci sarebbe un mondo da rivedere. Bisogna ritornare alle origini ma con un suono e una sapienza strumentale diversa. Adesso è il momento di “proclamarlo sui tetti”. Come dicevo ai musicisti a Siracusa:«se siete convinti di questa esecuzione, se vi piace e sentite vera questa strada, ditelo al mondo!».

 

Da persona e musicista, quale sente essere la sua vocazione in questo mondo pieno di paradossi e incongruenze?

La cosa più urgente che avverto nella mia vita è testimoniare la Bellezza che vedo, sento, percepisco, nella musica in generale e in quella che suono abitualmente, in particolare. Vorrei testimoniare attraverso la musica che il bello esiste, il bene esiste, che è possibile un mondo migliore, seppure nelle difficoltà. La Bellezza ha una valenza etica, e il Bene e il Bello sono concetti da condividere e da perseguire, perché il male non prevalga. Come scriveva Dante, non siamo stati creati da Dio «per viver come bruti».

 

Oltre al violino barocco, spesso suona anche questo strumento affascinante che è la viola d’amore. Cosa l’ha portato a lei?

Un incontro straordinario. Quando ero bambino e muovevo i primi passi nel mondo della musica, ho ascoltato i concerti di Vivaldi per viola d’amore suonati dai Musici con Massimo Paris solista. Rimasi fulminato all’istante.

Ho poi avuto la fortuna di studiare in Conservatorio a Roma con Yvonne Ekmann, che alla fine degli studi mi disse:«guarda, tu sei naturalmente portato per la musica barocca, ma qui stai facendo violino moderno. Il barocco è la tua strada…». A lei devo molto, mi ha consigliato e guidato mentre ero in conservatorio, mi ha fatto conoscere persone che sono state importanti per me, e mi obbligò letteralmente a partecipare alle selezioni per l’EUBO, la European Union Baroque Orchestra che è stata determinante per la mia formazione. Lei stessa aveva una viola d’amore, e mi ripeteva:«io te la presto, però prima ti devi diplomare». E così è stato. Dopo il diploma mi ha prestato il suo strumento con il quale ho mosso i primi passi in questo mondo fantastico. Poi, dal 2006, grazie alla fondazione Peretti ho ricevuto in comodato d’uso un’altra viola d’amore, uno strumento eccezionale costruito da Ferdinando Gagliano, con la quale ho registrato vari dischi, il primo con Andrea Coen al clavicembalo dedicato a Domenico Scarlatti. Oggi però anche la prima viola, quella di Yvonne, è con me (grazie ancora una volta alla sua generosità per avermi permesso di acquistarla) ed alterno le due – che sono organologicamente diverse – a seconda del repertorio.

 

Grazie al suono particolare e alle caratteristiche della viola d’amore, è nato  Alias, un disco con musiche scritte appositamente per lei dalla compositrice Elvira Muratore.

Si, e ora stiamo lavorando a un secondo volume di Alias. Si tratta delle sei Suites per violoncello solo di Bach trascritte per viola d’amore, due da solo, due con un accompagnamento “da camera”, che non so ancora come Elvira realizzerà, e due accompagnate da un quartetto o piccola orchestra d’archi. La particolarità è che io suono sempre e solo quello che ha scritto Bach; alle mie note si aggiungerà un accompagnamento contemporaneo. Sarà un lavoro a quattro mani tra Bach ed Elvira!

 

So che è appassionato di cammini. Come questa esperienza tocca il suo essere musicista?

 Il cammino e la lentezza sono espressioni di alcuni degli aspetti della ricerca. Bisogna essere cercatori, ognuno attraverso ciò che ritiene più consono per sé stesso, consapevoli di non essere il centro del mondo e di essere fragili, in quanto essere umani. Quello della fragilità, della vulnerabilità, è un concetto che era ben chiaro agli uomini del Seicento, che sapevano benissimo di poter morire da un momento all’altro per una qualunque malattia, anche per una semplice febbre. Vivevano con la morte sulle spalle e questa consapevolezza era fonte di un’enorme forza creatrice. Non è una visione pessimista! Anzi, sapere che i propri respiri sono contati, non uno di più, non uno di meno (come dice Padre Maurizio Botta) può spingere ad un grande amore per la vita.

 

E la lentezza?

 La lentezza, così come è nel cammino, ci insegna che per raggiungere degli obiettivi è necessaria una sana fatica e la capacità di attendere il tempo giusto. Nella società attuale questo è un valore senz’altro da riconsiderare.

 

E la fragilità?

 È necessario non dimenticare mai di vivere la condizione umana fragile per sua natura. Convivo con il diabete da quando avevo tredici anni e questa condizione è diventata per me una spinta creatrice, mi ha insegnato in qualche modo a “maneggiare” la mia umanità. La fragilità in musica significa poter sbagliare la nota, emettere un suono brutto, non essere insieme agli altri, ma la cosa che non va persa è la credibilità. Il pubblico percepisce quando un musicista è pienamente umano, pienamente vero.

 

Le piace insegnare?

Sì, molto. Questo anno accademico continuo ad insegnare al Conservatorio de L’Aquila e, per la prima volta, ho anche un incarico al Conservatorio Monteverdi di Cremona dove è stato aperto un corso di violino barocco. L’esperienza didattica per me è molto formativa, perché quando si insegna agli altri si insegna soprattutto a sé stessi. Non è una frase fatta, non è “buonismo”, è davvero così.

 

Cosa vorrebbe realizzare per la città di Cremona?

 Sono convinto che Cremona abbia delle potenzialità enormi per quanto riguarda la musica antica. È una città con una storia musicale lunga e importante ed ha un grande quantità di chiese, palazzi, sale. Sarebbe auspicabile che nella città del violino ci fosse una solida scuola anche di violino barocco. Spero di collaborare alla creazione di un luogo di incontri per tutti coloro che vogliono approfondire la prassi storicamente informata.

 

Quali sono i suoi progetti futuri?

Con Elisabetta Guglielmin – clavicembalista di gran levatura e personalità eccezionale – stiamo lavorando alle Sonate per violino e clavicembalo di Bach, un autore per il quale sarebbe auspicabile un’ecologia musicale, liberando la prassi esecutiva prevalente dalle troppe sovrastrutture legate alla velocità e allo stile. Ad esempio, quante influenze in Bach arrivano dallo stile francese e non sono prese in considerazione?! Stiamo lavorando con Elisabetta per cercare di suonare un Bach musicalmente “ecologico”.

Ho in progetto, con Andrea Coen al clavicembalo, un secondo volume delle sonate di Domenico Scarlatti che suonerò con la viola d’amore. Vorremmo portare avanti l’idea alla base del primo disco uscito una decina di anni fa, e cioè che le famose “Melobass Sonatas” possano essere suonate su questo particolare strumento. A ragion veduta possiamo dire che c’è un contesto storico che suggerisce questa soluzione.

Ho anche in programma diverse collaborazioni: con Harmoniche Sfere, l’ensemble diretto da Paolo Corsi, diversi progetti discografici e concertistici come le sonate di Rust per viola d’amore e fortepiano. Continuerò lo studio della figura del Farinelli come virtuoso anche di viola d’amore con l’ensemble Seicentonovecento diretto da Flavio Colusso. A breve registrerò con la Virtuosa Compagnia di Musici di Roma (i cari amici Emanuela Pietrocini e Maurizio Lopa) il secondo volume delle sonate per violino e basso continuo (Parigi, 1707) del misterioso Charles Gregoire de la Fertè. Il primo volume, con le sei prime sonate è uscito da pochi mesi ed ha già riscosso notevole successo.

 

Se avesse la possibilità di usare una macchina del tempo …

 Mi vorrei rifugiare alla fine del Seicento, in un posto musicale tranquillo, almeno finché mi durino le scorte di insulina!

 

Quale compositore vorrebbe incontrare?

 Vorrei conoscere di persona Don Antonio Vivaldi. Me lo immagino come un uomo complesso, dalle molteplici sfaccettature, caratterialmente contraddittorio: una persona interessante. Dalle sue partiture si possono intuire diversi tratti caratteriali, e attraverso lo studio della sua musica tento di capirne la personalità. Sicuramente è un musicista e una persona molto lontana da quel Vivaldi circense che molti spacciano o contrabbandano al giorno d’oggi.

In generale il mio desiderio più grande sarebbe poter ascoltare i suoni di quell’epoca. Sono convinto che la vera partita della filologia musicale si debba giocare sul “suono”, e quei suoni li immagino totalmente diversi da come noi attualmente li ricreiamo. Non parlo tanto del suono del singolo strumento, bensì del suono degli insiemi strumentali o vocali. Basti pensare che esso dipende non solo dall’organico e dal numero degli esecutori ed anche dalla velocità di esecuzione! Mi sono emozionato profondamente quando a Siracusa, finalmente, abbiamo eseguito Corelli con una grande orchestra, divisa in tre cori dialoganti, formata da uno strumento basso per ciascun violino, che utilizzava finalmente velocità di esecuzione non frenetiche.

Il risultato è stato un suono antico, fluido, plastico, palpitante; in una sola parola vivo!

 

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