Progettare il futuro. Intervista a Paolo Bartolani.

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di Smeralda Nunnari

Pianista e direttore artistico della prestigiosa rassegna statunitense Rites of Spring Music Festival, Paolo Bartolani (57 anni, nato a Velletri) ha collaborato come consulente per la gestione di progetti di cooperazione europea con l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, la Biennale di Venezia, la Fondazione Campania dei Festival, l’Associazione Musicale Résonnance, l’Associazione Nuova Consonanza, le Università degli Studi di Perugia e L’Orientale di Napoli. Quest’anno sarà per la prima volta ospite di Cremona Musica International Exhibitions and Festival, portando il suo contributo alla discussione sulle tematiche del fundraising e della progettazione europea.

 

Maestro Bartolani, lei vanta una singolare esperienza come pianista concertista, organizzatore musicale e coordinatore di progetti culturali internazionali. Può raccontarci come è nata questa pluralità di interessi?

Sono cresciuto in provincia di Latina, e fin da piccolo ho iniziato a seguire le lezioni di pianoforte con buoni maestri: il primo è stato Eduardo Hubert, poi mi sono diplomato al Conservatorio di Santa Cecilia. Sono entrato in contatto con Germaine Mounier, grande pianista e didatta, e ho frequentato l’École normale de musique: vivere a Parigi ha aperto i miei orizzonti. Parallelamente agli studi pianistici, ho seguito quelli musicologici all’IRCAM, ottenendo un Master in musicologia contemporanea all’École des hautes études en sciences sociales. Tutte queste esperienze mi hanno preparato all’attività di operatore culturale, dandomi una visione d’insieme su come la cultura e l’arte possano avere un impatto nella società e nelle istituzioni.

 

Com’è entrato invece nel mondo della progettazione culturale?

Tornato in Italia, mi sono interessato ai programmi di cooperazione offerti dalla Commissione Europea. L’incontro con Michele dall’Ongaro, all’epoca presidente di Nuova Consonanza, e la programmazione del nuovo Festival sui primi esperimenti di musica elettronica fatti da Luciano Berio mi hanno dato uno spunto creativo, insieme alle suggestioni ricevute a Parigi dalla Maison de la Radio con Pierre Schaeffer e da Radio Colonia con Karlheinz Stockhausen. Così, proposi all’associazione di presentare un progetto per ottenere fondi dall’Europa. Abbiamo intitolato il festival “Elettroshock, 50 anni di musica elettroacustica”; nei due anni successivi, abbiamo riscosso altri due finanziamenti dall’Europa. Questo ha instaurato una serie di connessioni: ho poi lavorato alla Biennale di Venezia, collaborando con Bruno Canino, come assistente alla direzione musicale del Festival. Successivamente, proposi al direttore un progetto di rete che coinvolgeva nove festival, tre per ogni disciplina: teatro, danza e musica contemporanea. Una grossa scommessa, rivelatasi vincente.

 

Le sue attività la rendono promotore di nuovi modelli di fruizione musicale che superano le forme tradizionali di partecipazione. Quali scenari si prospettano?

Ritengo che oggi sia importante ripensare la forma classica del concerto. Il rituale di sedersi a teatro e ascoltare musica è un’esperienza fantastica, ma risponde a un modello di ricezione unilaterale e passiva. Il pubblico ha bisogno di sperimentare riti concertistici con maggiore partecipazione. Oltre all’uso di nuovi mezzi tecnologici, sono attento a pratiche artistiche analogiche, alla possibilità d‘integrare e rendere simbiotico lo spazio concertistico e la musica, con una maggiore attenzione ai luoghi di fruizione. Un altro aspetto è la possibilità di integrare la musica con le altre arti: all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia abbiamo realizzato progetti con motion capture [processo che “cattura” il movimento del corpo umano o di altri oggetti, ndr], proiezione d’immagini sul palco, intervento di danzatori, coreografie ed ensemble strumentale. Senza dimenticare la possibilità, per il pubblico, di partecipare attivamente come comunità creativa, desiderosa di modificare il contesto sociale.

 

Come sviluppare strategie e sinergie che possano sprigionare il potenziale dei giovani, per proiettarci verso il futuro?

Prima di tutto, bisogna investire nella formazione, ma non nel senso tradizionale del termine. Ciò che occorre è, anche, sviluppare una consapevolezza economica, diplomatica, politica e culturale come operatore musicale. Io investirei su cosa significhi, oggi, essere italiani, operatori culturali in un contesto internazionale: siamo ambasciatori della cultura, designer, architetti di nuovi spazi creativi, alla ricerca di luoghi nuovi o da mostrare sotto una nuova luce. E dobbiamo essere capaci di offrire la possibilità, al pubblico e agli artisti, d’interagire in modo empatico generando un’esperienza trasformativa per la comunità.

 

Aspettando l’edizione 2023 di Cremona Musica, cosa si aspetta da questo appuntamento?

Avrò la fortuna di essere presente quest’anno per la prima volta. Ritengo che rappresenti una perfetta combinazione di elementi, perché si struttura su un evento di natura commerciale e imprenditoriale, una fiera di strumenti musicali dalla visibilità e dall’impostazione internazionali. A questa si affiancano una serie di eventi culturali in sinergia con l’aspetto economico e imprenditoriale. Una perfetta macchina organizzativa, quindi. Sono molto contento di partecipare e dare il mio contributo affinché questa manifestazione possa crescere e continuare, sempre più, a rappresentare l’Italia!

 

La musica investe tutte le dimensioni della nostra vita, da quella personale e culturale a quella sociale ed economica: quali sono le sue potenzialità nel delineare il mondo di domani?

Hai detto bene, la musica ha un potere trasformativo e ci offre l’energia per avere una visione più positiva della realtà. Dal mio punto di vista, questo significa anche prendersi cura di se stessi e creare un benessere collettivo. La musica e l’arte in generale hanno anche una finalità critica che ci permette di guardare al futuro con lucidità e creatività.

 

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