Il pianoforte robotico. Intervista a Édouard Ferlet.

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di Alessio Zuccaro

Il tema del rapporto uomo-macchina è antico e fecondo: ha ispirato autori del calibro di Isaac Asimov e Philip K. Dick, e prodotto capolavori in ambito letterario e cinematografico. A declinarlo al pianoforte ci ha pensato Édouard Ferlet, 52 anni, pianista jazz parigino, con risultati sorprendenti: ne avremo un assaggio in occasione della sua partecipazione a Cremona Musica International Exhibitions and Festival, dove presenterà in anteprima il suo nuovo lavoro discografico.

 

Nel descrivere l’album Pianoïd (2021, uscito per l’etichetta Melisse), lei stesso lo presenta come “un futuro possibile del recital pianistico”. Che cosa intende dire?

Pianoïd affronta la questione del rapporto tra uomo e macchina. I robot nascono per imitare i gesti umani; tuttavia, con l’avanzamento della tecnologia, si è verificato un ribaltamento e ora sono gli uomini a rincorrere i gesti robotici, capaci di imprese per noi impossibili. Lo scopo di Pianoïd è mostrare la poeticità del movimento automatizzato. Per esempio, l’essere umano può suonare lentamente, ma non così lentamente come può fare una macchina, o così veloce, o così forte. Fino ad ora potevamo tentare di colmare il gap con l’ausilio dell’elettronica, ma in Pianoïd lo facciamo con strumenti acustici, come il piano Yamaha Disklavier ben noto al pubblico cremonese [da diversi anni Cremona Musica dedica un festival e un concorso all’innovativo modello di pianoforte acustico, capace di memorizzare e riprodurre una performance in tutte le sue sfumature, ndr], e questo fa la differenza. Per un compositore, infatti, è ora possibile scrivere tutto ciò che vuole senza doversi preoccupare della eseguibilità tecnica del suo pezzo. Più che di un nuovo repertorio, si tratta quindi di una nuova maniera di pensare e comporre.

 

Ascoltando la sua musica si possono cogliere molte influenze, da Bach a Philip Glass e Brian Eno. Quali sono i suoi autori di riferimento?

Mi sono formato nell’ambiente jazz con il sound di Chick Corea, Keith Jarrett, Wynton Marsalis. Quando studiavo a Brooklyn e Boston ero immerso in quella tradizione, ne ero entusiasta, ma è stato importante per me tornare alle origini, ai compositori europei. Cerco sempre di non ascoltare troppo i grandi pianisti jazz per poter trovare una mia identità e traggo ispirazione dai colleghi suonando con loro, non semplicemente ascoltandoli. Ma lo stimolo più grande viene dalle altre arti: leggere un libro o una poesia, ammirare un quadro. Talvolta assisto a uno spettacolo di danza e mi domando come possa trasporlo nella mia musica.

 

È così che nascono le sue composizioni?

Talvolta mi siedo semplicemente al pianoforte e lascio che le mie dita suonino. Non cerco di fare qualcosa in particolare, di pensare alla melodia o all’armonia, ma solo di essere completamente dentro me stesso. Credo, infatti, che dopo aver suonato per tanti anni il tuo corpo si riempia di musica e gesti, e che basti mettere le dita sul pianoforte per tirare fuori qualcosa di sconosciuto. Per questo motivo registro le mie improvvisazioni: ne escono spunti e invenzioni che non avrei mai concepito per iscritto, e che poi prendono forma in brani veri e propri. Altre volte parto da un pezzo di repertorio (Bach o Mozart, ad esempio) cercando di penetrare l’essenza di una data successione armonica o di una melodia. Oppure compongo direttamente al computer. Amo sperimentare molti metodi creativi, insomma.

 

Nel 2006 ha fondato un’etichetta discografica, Melisse, con Benjamin Gratton. Che tipo di musica propone?

Ho voluto dar vita a un’etichetta perché, malgrado la grande quantità di lavoro che desideravo condividere, non trovavo aiuto sufficiente per registrarlo e pubblicarlo. Così ho deciso di farlo da solo. Trovo molto interessante il processo di produzione di un album: radunare le persone giuste, pianificare la registrazione, dare consistenza alla musica. A lungo ho cercato di dare una mano ad altri artisti, mettendo a disposizione l’etichetta per consentire loro di preoccuparsi solo dell’esecuzione. Ma si tratta di un’attività molto dispendiosa in termini di tempo ed energia, e il mio primo obiettivo è sempre stato quello di comporre e suonare: perciò, attualmente produco solo progetti a cui partecipo in prima persona.

 

Cosa può imparare un pianista classico dall’approccio jazz?

Penso che sia più una questione di esseri umani, che di pianisti classici o jazz: talvolta ho incontrato jazzisti dal carattere classico, e viceversa spesso mi sono trovato in grande sintonia ritmica e creativa con musicisti più tradizionali. Per me, avere un’attitudine jazz significa essere pronti all’imprevedibile, a ciò che non ti aspetti che accada. Credo sia una qualità importante anche per un pianista classico, spesso alle prese con strumenti non eccelsi o situazioni poco accoglienti. La principale qualità del jazzista è l’improvvisazione, ma non si tratta certo di un elemento esclusivo della musica moderna. Nel periodo barocco, d’altronde, bisognava saper improvvisare su una linea di basso, senza indicazioni di tempo o dinamica; è solo dopo il classicismo che tutti questi parametri hanno iniziato a essere messi per iscritto.

 

Quali sono i suoi progetti futuri?

A novembre uscirà Pianoïd², la seconda parte del lavoro. Ma ho in programma anche l’undicesimo album del mio trio Viret e il terzo della serie Think Bach. Mi piace strutturare progetti a lungo termine, di ampio respiro.

 

Porterà qualche novità anche a Cremona Musica?

Sarà la mia prima esperienza nella città lombarda, dove presenterò in anteprima Pianoïd², con l’aggiunta di alcuni brani tratti dal suo predecessore. Amo sorprendere le persone, far compiere loro un viaggio musicale. È una bella soddisfazione quando, al termine dei concerti, un ascoltatore dice di aver avuto l’impressione di sentire trombe, violini e altri strumenti: anche con una performance puramente acustica è possibile vestire il pianoforte di mille timbri differenti. Sarò molto felice di poter condividere tutto questo con il pubblico di Cremona!

 

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