Quale futuro per il recital pianistico?

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di Maria Musti

Il recital pianistico: un format ideato da Franz Liszt, celebre virtuoso e compositore ungherese, che il 9 giugno del 1840 utilizzò, curiosamente al plurale, questo termine per un suo concerto londinese. Un modello che ha ben 183 anni.

È ancora attuale o ha bisogno di qualche ritocco? Se lo è chiesto Pasquale Iannone, concertista e direttore artistico del Barletta Piano Festival, girando questa domanda a eminenti personalità del mondo musicale italiano, pianisti dalla fulgida carriera, direttori artistici, agenti, giornalisti.

Ne è scaturita un’interessantissima giornata di approfondimento, intitolata Quale futuro per il recital pianistico, tenutasi nella città pugliese domenica 23 luglio. Idealmente dedicata a Piero Rattalino, recetentemente scomparso, ha avuto come protagonisti i pianisti Emanuele Arciuli, Francesco Libetta (nella doppia veste di musicisti e direttori artistici), Luca Ciammarughi, Ilia Kim, il direttore di Suonare News e Amadeus Filippo Michelangeli, e Alessandro Padovan, direttore dell’agenzia CALMA Management, moderati dalla conduttrice radiofonica di Rai Radio3 Valentina Lo Surdo.

Le loro differenti professionalità hanno permesso di trattare l’argomento da molteplici punti di vista.

Padovan, agente della star del pianismo internazionale Daniil Trifonov dal 2008 al 2019, ha condiviso le sue riflessioni su come una carriera che viaggia sul ritmo di 120/130 concerti all’anno lasci all’artista solo poco più di un mese l’anno per fare cose diverse dal suonare: si passa dall’aeroporto all’hotel, al teatro per prove e concerto, e il giorno dopo si ricomincia, perdendo a volte di vista la consapevolezza della città in cui ci si trova in quel momento. Ciò porta ad esecuzioni “di routine”, standardizzate, al concentrarsi solo sulla performance trascurando l’emozione. L’artista deve quindi interrogarsi sul ritmo della propria attività e valutarne le conseguenze.

Non condividendo le condizioni imposte dalle agenzie internazionali, Padovan ha ritirato la propria dal circuito, rendendosi indipendente e scegliendo di ribaltare il punto di vista: l’artista ha bisogno di essere in contatto con il posto in cui suona, non di freneticità. La soluzione? Creare la figura del musicista residente, che ritorna più volte o si esibisce in giorni vicini, interagendo con le altre arti, affiancando i recital con mostre, visite guidate, momenti dedicati all’enogastronomia, creando in tal modo un sistema “ecologico” della fruizione musicale che giri intorno alla bellezza. Questa idea è condivisa e sposata da Ciammarughi, che per evitare la routine propone tre diverse tipologie di recital: culturale, cioè accompagnato da una lezione concerto, carismatico, ricco di intensità emotiva e tipico di pianisti come Sokolov, e infine sinestetico: al pianoforte si aggiungono altre arti, generando in tal modo un momento interessante e creativo. Non solo: questo nuovo modello di recital può avvicinare alla musica anche chi segue il teatro, le mostre, gli eventi letterari, ma non va ai concerti. Ciò, nell’ottica della necessità di “rifondare” il pubblico, è un elemento da non sottovalutare.

La fondamentale importanza dello storytelling è stata sottolineata in tutti gli interventi. Ilia Kim, depositaria del pensiero di Rattalino, suo compagno di vita e di musica per 26 anni, ne ha ricordato la passione per la divulgazione, che lo portava a dire: «Io insegno il pianoforte per insegnare la musica, insegno la musica per insegnare l’arte, insegno l’arte per insegnare la vita». La musica è infatti vita, pathos, storia vissuta. Le restrizioni dovute al Covid hanno purtroppo allontanato una fetta di appassionati dal live, ma la fruizione della musica solo dal salotto di casa propria, attraverso Cd, Internet o televisione, priva l’esperienza della sua componente vitale: l’emozione. Ed è da quella che dobbiamo ripartire per riportare la gente nelle sale da concerto, che al momento anche gli interpreti più famosi faticano a riempire. Bisogna lavorare, secondo la pianista coreana, con i concerti di quartiere, in piccole sale, perché il racconto musicale ha bisogno del contatto col pubblico, e solo la comunicazione a livello emotivo riesce a fare lavoro di divulgazione.

«Vengo per emozionarmi» è la risposta che spesso si sente dare Filippo Michelangeli quando, da spettatore, chiede a qualcuno nel pubblico cosa lo abbia portato ad ascoltare un concerto. Ricompare la componente fondamentale, che è comune a esecutori e pubblico. Se manca, il recital diventa fallimentare. Per aiutarlo a superare la stanchezza che ultimamente dimostra, è un buon rimedio affiancare all’interprete un narratore, che racconti le emozioni, creando attesa, sorpresa, collegando la musica al vissuto. Nel Novecento dominava la figura del musicista oggettivo e “il sacro testo”, lo spartito, era l’elemento centrale. Ma ciò che il compositore ha lasciato scritto non basta, hanno sottolineato Ciammarughi e Libetta, serve che l’esecutore lo viva profondamente e lo accompagni in  una vita avventurosa. È fondamentale, secondo il virtuoso salentino, spiegare cosa si sta raccontando attraverso la musica, parlare la lingua del momento, come fecero ad esempio il pittore barlettano Giuseppe De Nittis dipingendo il fumo di due treni che si incrociano, e Prokofieff, che ha portato in musica la regolarità del motore a scoppio. Bisogna far capire dove sta andando la storia, avere intelligenza emotiva. Però, come ha fatto notare Arciuli, va anche svecchiato il repertorio scegliendo di eseguire musica nuova, bella, che narri momenti sia straordinari sia ordinari. Se facciamo ascoltare musica di oggi essa risulterà d’impatto, efficace, foriera di racconti legati al presente. Tra l’altro – aspetto non trascurabile – leggere un brano nuovo, che non si trova su YouTube, apre la mente e aiuta anche a dare un’impronta originale al repertorio più tradizionale. Sorridendo, il pianista barese ha ricordato che Rattalino non credeva molto nella musica moderna, ma perché «ne aveva sentita tanta orrenda».

Michelangeli, da buon cronista, ha parlato di numeri, citando i dati forniti dalla Siae sull’attività concertistica del 2019, gli ultimi disponibili, visto lo stop del biennio 2020/2021 e l’ indisponibilità di quelli relativi al 2022. In quell’anno ci sono stati in Italia circa 17mila concerti, di cui almeno il 50% erano recital. Quindi anche dal punto di vista economico si tratta di un elemento importantissimo, che va seguito con attenzione, mantenuto ma anche svecchiato.

E questo incontro, denso di contenuti e allo stesso tempo scorrevole e leggero grazie alla simpatia con cui i partecipanti si sono confrontati, ha offerto tanti spunti di rinnovamento su cui riflettere.

Quindi, cari colleghi pianisti, mettiamoci al lavoro: raccontiamo, studiamo nuova musica, collaboriamo con pittori, attori, danzatori, creiamo narrazioni che affascinino, emozioniamoci nel farlo ed emozioniamo chi ci ascolta.

E…lunga vita al recital pianistico!

Gli atti del convegno saranno presto pubblicati da Edizioni Curci.

 

©Foto di Federico Cappabianca

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