Dalle parole ai fatti. Intervista a Daniele Spini.

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di Stefano Teani

Daniele Spini, rinomato professore e giornalista fiorentino, vanta una vasta esperienza musicale. Critico musicale, ha collaborato con La Nazione di Firenze e il Mattino di Napoli per oltre 25 anni. Docente presso la Scuola di Musica di Fiesole dal 1981, nel 1994 ha vinto un concorso nazionale per l’insegnamento della Storia della Musica. Ha ricoperto incarichi di rilievo, quali vicepresidente del Centro Tempo Reale di Firenze e direttore artistico di varie orchestre, incluse l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai e l’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento. È stato presidente della Scuola di Musica di Fiesole e dell’Associazione Culturale Harmonia Cantata, oltre a essere membro del Consiglio direttivo di Tempo Reale. Autore di saggi e articoli per riviste musicali di prestigio, ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti nel corso della sua carriera. Attualmente, è direttore artistico dell’ORT dal febbraio 2023.

 

Dott. Spini, come nasce la sua esperienza – o forse dovrei dire vocazione – per la direzione artistica?

 È nata quando mi hanno chiesto di fare il direttore artistico dell’Orchestra della RAI, fino ad allora avevo svolto l’attività di critico musicale. Molti miei conoscenti, infatti, hanno pensato che lasciassi l’attività di critico per diventare organizzatore; in realtà non era più possibile svolgere la professione giornalistica in quanto non rappresentava più un lavoro che consente di vivere e girare il mondo. Ho cominciato così a fare l’organizzatore, poi come si suole dire, “da cosa nasce cosa”. Hanno continuato a richiamarmi e sono arrivato alla quarta – e spero ultima – direzione artistica.

 

Perché “spera ultima”?

 Perché forse a settantaquattro anni sarebbe arrivato il momento di fermarsi!

 

Non se le idee rimangono giovani! Com’è cambiata la professione negli anni?

Naturalmente è cambiata moltissimo, adattandosi all’enorme mutamento del rapporto col pubblico e della distribuzione sul territorio degli eventi musicali. Credo che oggi dobbiamo incamminarci sempre di più verso una programmazione agile, con programmi piuttosto brevi. Un tempo si stava in teatro anche due ore, ovviamente non è più possibile nella società moderna, quindi bisogna adattarsi e valutare questo aspetto.

 

Cambia anche il gusto del pubblico, nei confronti del repertorio.

Esattamente, quando io ho cominciato eravamo ancora nello scorso millennio, quindi eseguire la musica del Novecento storico – penso a La Sagra della Primavera di Stravinsky, per esempio – era considerata una spinta verso la modernità. Oggi sono brani che hanno più di cento anni, quindi rientrano a pieno titolo nel “repertorio”. Per essere ammessi in un’orchestra, metà dei brani che i musicisti devono portare all’audizione (i cosiddetti “passi d’orchestra) sono di Bartók, Stravinsky, Debussy e Ravel. Tutti autori che all’epoca sembravano una novità…

 

Forse bisogna instaurare un rapporto con la nuova musica?

Anche questo approccio è cambiato, la “musica contemporanea” si è addolcita e, al tempo stesso, si è resa meno impegnata. La musica è bella in quanto varia e in perenne mutamento, quindi – secondo me – se si pretende di fare la stessa cosa per venti anni consecutivi si finisce inevitabilmente contro il muro.

 

Anche il rapporto con le istituzioni è cambiato?

Senza dubbio! L’intervento dirigistico delle amministrazioni pubbliche un tempo era fortissimo, oggi le istituzioni concertistiche devono contare molto di più sulle loro forze. Per esempio, a marzo scorso abbiamo ricordato il primo direttore musicale dell’ORT, istituzione  nata nel 1983 per iniziativa diretta della Regione Toscana.

 

Decisamente altri tempi. Le riporto un dato: l’Istat ci dice che nel 2023 il 94% degli italiani non ha messo piede in una sala da concerto.

Questo è curioso. Quando ero alla RAI, nel 2004, ho fatto due operazioni antitetiche: ho inventato Rai Nuova Musica – un festival in cui il suono che assomigliava più lontanamente a una nota musicale era uno starnuto – e ho proposto il Ciclo Beethoven (per cui sono stato rimproverato di “fare sempre le solite cose”). Siccome ci fu il record di abbonamenti, TGR Piemonte mandò una squadra per raccogliere le impressioni degli ascoltatori all’ingresso. Alla domanda: «Lei conosce tutte le sinfonie di Beethoven?» La stragrande maggioranza rispondeva “quasi tutte”. Stiamo parlando di Beethoven, è evidente che c’è necessità di fare queste operazioni, dato che siamo in un Paese in cui la frequentazione della musica è minoritaria e molto incompleta.

 

Concluderei con una nota sulla sua ricerca di giovani talenti. Penso, da ultimo, a Diego Ceretta, ventottenne da lei nominato direttore musicale dell’ORT.

Si può dire che io ho sempre avuto la fortuna di trovarmi persone giovani d’intorno. Pensavo proprio l’altro giorno a quanti direttori hanno fatto le loro prime cose importanti con me. Per esempio, all’improvvisa morte di Sinopoli – una volta ripresomi dallo shock – ho dovuto decidere se chiamare un altro buon professionista (e nessuno era disponibile con così poco preavviso) o annullare la produzione. Mi venne allora in mente un giovane direttore che si era messo in luce in Germania, dirigendo la tetralogia wagneriana a Meiningen [n.d.r. Kirill Petrenko]. Posso dire che quando è diventato il direttore dei Berliner Philarmoniker sono ingrassato di alcuni chili…

 

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