Gianna Fratta, il merito e non l’immagine

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di Stefano Teani

Direttrice d’orchestra, pianista, laureata in giurisprudenza, docente di composizione al Conservatorio Umberto Giordano di Foggia, visiting professor alla Sungshin University di Seoul, docente ospite per masterclass in varie università del mondo fra cui la Bocconi di Milano, direttore principale dell’ApuliaEnsemble, pianista dell’Ensemble Umberto Giordano e molto altro ancora. Gianna Fratta riesce a essere tutto questo senza troppe cerimonie e senza vendere la propria immagine.

 

Nata a Erba nel 1973, Gianna Fratta compie un percorso di formazione tanto lungo quanto accurato, diplomandosi con il massimo dei voti in pianoforte e in composizione. Successivamente si diploma in direzione d’orchestra con 10 e lode, in musica corale e direzione di coro, studiando con maestri quali Daniela Caratori, Ottavio De Lillo e Rino Marrone. Dopo essersi perfezionata in pianoforte a Imola e a Roma (con Franco Scala e Sergio Perticaroli) e in direzione d’orchestra all’Accademia Chigiana di Siena (con Yuri Ahronovich, ottenendo il diploma di merito e la borsa di studio), inizia una brillante carriera come pianista vincendo innumerevoli concorsi ed esibendosi regolarmente con l’Ensemble Umberto Giordano e da solista in tournée in Italia, Germania, Spagna, India, Israele, Turchia, Corea del Sud e del Nord, Stati Uniti, Lituania, Svezia, Libano, Argentina, Uruguay, Brasile, Sudafrica ecc. Dagli esordi a 25 anni fino a oggi ha diretto orchestre come Berliner Symphoniker, Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, Royal Academy di Londra, Orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari, Russian Symphony Orchestra e molte altre in tutto il mondo. È laureata in giurisprudenza, oltre che in discipline musicali con 110 e lode.

 

 

Lei è la prima musicista della sua famiglia, quanto ha inciso nella sua formazione musicale?

A livello pratico sicuramente non ha aiutato, ma per tutto il resto sì. Io e mia sorella siamo le uniche musiciste in famiglia; questo ci ha fatto procedere “per tentativi ed errori”: abbiamo cercato insegnanti, li abbiamo cambiati, abbiamo provato concorsi, insomma abbiamo percorso una strada che i nostri genitori non conoscevano, da sole. Sotto il profilo pratico abbiamo fatto strade più lunghe, sotto il profilo della crescita individuale abbiamo fatto strade più faticose, quindi più formative.

È chiaro che se i miei nipotini, figli di mia sorella Ida, decidessero di intraprendere la strada della musica sarebbero avvantaggiati. Loro ascoltano musica classica da sempre, a quattro anni hanno già iniziato a fare corsi di musica, avrebbero delle guide con esperienza, sotto alcuni aspetti non perderebbero tempo. Potremmo aiutarli a non fare tanti sbagli, tanti tentativi che noi abbiamo fatto.

Ad esempio io, che ero la più grande e avevo due genitori che hanno investito tutto nella mia formazione e in quella di mia sorella, fidandosi di quello che una bambina di meno di 10 anni chiedevo loro, ho deciso presto di diventare una direttrice d’orchestra, ma poi ho fatto un percorso lunghissimo e lentissimo. Ho pensato a prendere tanti diplomi, lauree, perché sentivo che potevano essere la strada giusta. Ho 47 anni e dirigo seriamente da non più di 15, mentre ci sono colleghi poco più che ventenni che hanno già carriere molto importanti. Tuttavia questo mi ha permesso di arrivare più pronta sul quel metro quadro di podio e di non fare mai il passo più lungo della gamba. Non me lo sono potuta permettere e un mattone alla volta ho costruito il mio viaggio con la musica. Un viaggio, un percorso, un cammino. Non una carriera.

 

Qual è stato un evento particolarmente importante nella sua formazione e nella sua vita? Qualcosa che l’ha segnata particolarmente. 

Io ho iniziato a studiare pianoforte molto presto, avevo 5 anni. Sono entrata in conservatorio a Milano a 8 anni e questo sicuramente è stato un primo momento fondamentale. Studiavo con un maestro che poco dopo la mia ammissione mi invitò a un suo concerto da pianista con l’orchestra. Era la prima volta che ascoltavo un’orchestra dal vivo. È stato un colpo di fulmine: ho pensato “voglio stare al centro di tutti questi suoni, come quel signore con la bacchetta”. Sono uscita dal concerto e ho detto ai miei genitori che il pianoforte mi interessava, ma che volevo dirigere, per stare in quella posizione, ascoltare e guardare tutti i professori d’orchestra. I miei genitori non hanno dato molto peso alle parole di una bimba di 9 anni e al suo sogno di fanciulla. Invece da quel momento io ho guardato quel sogno e l’ho inseguito, in tutti i modi in cui ho saputo e potuto farlo. Fino a che non l’ho raggiunto, a qualsiasi prezzo.

 

Direttrice d’orchestra, in un momento storico in cui c’è molto interesse verso le donne, in particolare quelle che si dedicano alla direzione, lei non sembra averne approfittato. Come mai?

Perché il direttore d’orchestra non ha un sesso, non è un lavoro di genere. Perché dovrei approfittare di una cosa che non ha alcuna relazione con la musica? Io non sono mai interessata a che si parli di me come “la direttrice d’orchestra Gianna Fratta, prima donna a…”, io sono interessata che si parli di come ho diretto, se il mio Puccini era interessante, se ha emozionato, se i tempi erano giusti, se il gesto era chiaro.

Sono interessata ad essere valutata secondo parametri musicali, non estetici, di genere, di età, di altezza, di vestito. Non ho puntato sull’immagine semplicemente perché la musica non è immagine, è sostanza.

Quando leggo di artisti e artiste che si definiscono secondo parametri non musicali, mi dispiace per loro. Dire che si è la pianista più bella, la direttrice più giovane mi fa sorridere, sia perché sono parametri non verificabili e totalmente assurdi, per non dire ridicoli, sia perché a chi importa se sei la più bella, la più giovane, la più alta, la più scollata? A tutti interessa se sei brava, se hai emozionato, se hai consegnato all’uditorio una interpretazione profonda, pensata, di valore. O almeno questo dovrebbe interessare. Se lo immagina se io scrivessi sul curriculum che sono la direttrice d’orchestra con i capelli più ricci? Fa ridere, vero? Beh, è la stessa cosa.

Non ho mai sfruttato, né mai sfrutterò la prerogativa di genere, l’estetica, il gossip, la vita privata per definire me stessa. Io mi definisco e voglio essere giudicata solo in base alla musica che faccio.

 

Parlando di meriti, oltre alla qualità musicale lei è anche detentrice di numerosi primati: prima donna a dirigere i Berliner Symphoniker, l’Orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari, la prima donna italiana a dirigere l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma. Anche di questo non si parla.

I primati non sono mai una bella cosa. Essere “la prima donna a…” negli anni Duemila, non è una vittoria. Certo sono dei traguardi, che taglio con orgoglio per me e per tutte le mie colleghe, ma non ne sono felice. Non pubblicizzo mai molto questi primati, perché in fondo li considero delle sconfitte, al pari delle quote rosa.

Sono una grande sostenitrice delle donne, del loro talento, del loro merito. Non necessitano delle quote rosa. Basta la quota grigia, quella del cervello.

 

A proposito di aspetti privati della sua vita, ricordiamo che lei è sposata con un altro big della musica, stavolta però di tutt’altro genere, parliamo di Piero Pelù. Ci può dire qualcosa riguardo alla convivenza quotidiana di due grandi artisti appartenenti a mondi musicali così diversi?

 Esiste La Musica, con la L maiuscola e la M maiuscola. La cosiddetta musica “colta” non è migliore degli altri generi. C’è musica meravigliosa nel rock, nel pop, nel jazz. Noi musicisti classici tendiamo, a volte, ad auto posizionarci su un piedistallo che non esiste. Trovo che la musica sia una e si distingua in musica scritta bene e musica scritta meno bene. Scrivere una bella canzone non è più semplice che scrivere una bella aria d’opera. Le categorie, le divisioni, le differenziazioni servono certamente a definire generi e stili, ma non a definire il valore della musica, che invece è legata a parametri che accomunano tutti i generi: melodia, armonia, ritmo ecc.

Quando ho diretto La Sagra della Primavera di Stravinsky a Catania, è venuto anche Piero, che già conosceva ed amava questo pezzo. Non credo che si sia emozionato di meno che ad un concerto di Ozzy Osbourne.

La verità è che la “composizione” è un atto creativo uguale per tutti i generi. E io conosco bene, anche da docente di composizione, cosa c’è dietro a questo atto creativo, cosa voglia dire sfidare il foglio pentagrammato bianco.

 

A proposito di distinzioni, le capita di dirigere e suonare anche musica cosiddetta contemporanea?

Assolutamente sì, la insegno in conservatorio e mi capita spesso di doverla dirigere e suonare, anche insieme a brani del grande repertorio classico (ad esempio non molto tempo fa, insieme alla Prima Sinfonia di Mahler, ho diretto un brano molto complesso di Camillo Togni, compositore scomparso negli anni Novanta). D’altra parte viviamo in questa epoca e dobbiamo frequentare la musica di questo momento storico; non restare chiusi in un museo. L’aspetto cruciale è la capacità di comprendere i pezzi. Il discorso è molto lungo e complesso. Per sintetizzare, dico che personalmente non dirigo tutta la musica contemporanea; cerco di capirla e solo se ne ho compreso il senso la frequento e la propongo. Così come ai tempi di Beethoven ci sarà stata una serie infinita di compositori “contemporanei” che non sono passati alla storia come Ludwig, allo stesso modo cerco di operare una selezione rispetto alla nostra musica contemporanea. Non la dirigo a prescindere; cerco di valutarla secondo gli strumenti che possiedo. Sono certa di non operare sempre la scelta giusta, ma agisco con onestà rispetto alle partiture che ho davanti, siano esse dell’Ottocento o scritte ieri.

 

Nonostante la difficile situazione sanitaria a livello mondiale il suo calendario è ancora piuttosto nutrito. Quali sono i suoi prossimi appuntamenti e come vede la situazione dei teatri italiani?

 Sono molto contenta di due tournée che mi riporteranno in Oriente nel 2021, avrò dieci concerti sinfonici nel mese di marzo in Corea, con un’orchestra italiana, poi una Turandot a Tokyo a settembre. C’è poi una Suor Angelica a Craiova, concerti sinfonici a Maribor, Spalato, tante produzioni in Italia, tra cui una ripresa dell’Elisir d’amore al Maggio Musicale Fiorentino. Il mio calendario per fortuna si sta ricomponendo, ma è comunque un momento difficile. Il nostro comparto è stato penalizzato, anche se in un momento di emergenza sanitaria appare offensivo o, quanto meno, egoistico usare questo termine. È un momento molto complesso e pieno di contraddizioni, penso alle metropolitane stipate senza controlli mentre i teatri devono rispettare decine di norme oppure vengono semplicemente chiusi. È tutto talmente nuovo che non riesco neanche ad arrabbiarmi per l’illogicità della gestione dell’emergenza, penso che faccia parte della mancanza di conoscenza di questo virus. C’è un lato positivo per il nostro settore, inteso stavolta come musica classica; il pubblico sta seduto, fermo, in silenzio, senza ammassarsi come accade in altri generi. Questo ci consente in qualche modo di ripartire, seppur con tutte le difficoltà del caso. Il vero problema resta quello di gestire il palcoscenico. Non è difficile organizzare la platea, contingentando gli ingressi e distanziando gli spettatori, preoccupa quello che succede sul palcoscenico, dove gli spazi sono ridotti e bisogna muoversi con grande velocità. D’altra parte non possiamo neanche evitare di morire di Covid per scegliere di morire di fame, perché qui si parla di un intero comparto che rischia di finire male e questo mi preoccupa esattamente quanto il virus, se non di più.

 

C’è qualche “mito romantico” del mondo musicale che vorrebbe sfatare?

 Quello dell’utilità del direttore d’orchestra. Tante volte la gente mi chiede a cosa serva realmente un direttore d’orchestra, se tutti i professori d’orchestra sanno suonare e hanno davanti uno spartito. Qualcuno, i più avvertiti, pensano che serva a far iniziare e finire tutti insieme, altri pensano che il direttore dia il tempo. Alcuni bambini mi hanno chiesto perché ballo lì in mezzo all’orchestra, ma la verità è che questo ruolo un po’ magico, che serve a tutto e a niente, non è così chiaro nell’immaginario collettivo.

Quindi sfatiamo questa questione e chiediamoci a cosa serve un direttore d’orchestra e che competenze sono necessarie per essere un buon direttore d’orchestra.

Interrogativi meno scontati di quanto appaiano perché, se il ruolo del compositore, quale genio creativo che determina la nascita di un’opera nuova, è d’immediata comprensione, al pari di quello dei professori d’orchestra o degli artisti del coro o degli strumentisti che hanno il compito di suonare/cantare/interpretare e rendere vivo lo spartito, trasformando segni in suoni, non altrettanto può dirsi del direttore d’orchestra. Un uomo o molto più raramente una donna che su quel metro quadrato di “podio” non creano un’opera, né la eseguono. Non sono “creatori” e non sono “esecutori”; non scrivono la musica e non la suonano. Eppure il direttore d’orchestra è il link indispensabile, il mediatore, l’anello irrinunciabile tra il compositore – protagonista dell’atto creativo puro – e l’esecutore – colui che trasforma il segno in suono, mettendo in vibrazione un corpo vibrante; il direttore è colui che consegna all’ascolto del pubblico l’interpretazione dell’opera, che legge l’opera del compositore in modo univoco, originale e, perché no, “creativo” in senso lato.

E perché mai sarebbe necessario pensare ad un link tra compositore e musicisti se i professori d’orchestra, i cantanti, gli strumentisti, gli artisti del coro sono professionisti perfettamente in grado di leggere la musica e dunque di interpretare le note e i segni scritti dal compositore?

Questo è il primo punto da chiarire per comprendere la funzione di un direttore d’orchestra, una funzione che si spinge spesso assai oltre quanto si immagini, se si pensa che non di rado si sente dire “La Traviata di Muti”, invece che la Traviata di Verdi.

Questa ed altre espressioni simili sono rivelatrici di funzioni fondamentali del direttore d’orchestra, funzioni derivate dalle sue competenze, che io ritengo essere principalmente di quattro tipologie: competenze musicali, competenze tecniche, competenze organizzative, competenze culturali. Accanto a queste competenze in senso stretto, ve ne è una quinta tipologia, non esattamente classificabile come una “competenza”, quanto piuttosto una inclinazione, una attitudine che ha a che fare con l’umanità, la capacità di interagire con esseri umani, sapendoli motivare verso l’obiettivo comune. Una inclinazione che può essere implementata, altrettanto delle altre, con lavoro e studio, ma che presuppone un modo di essere, al pari dell’attitudine ad essere carismatici ed autorevoli.

Questo mix di competenze variegate ed estremamente eterogenee rendono la professione del direttore d’orchestra – ma altrettanto potrebbe dirsi per il direttore di coro o per il manager di una grande azienda o per qualsiasi leader – unica e molto complessa.

Sembra tutto molto cerebrale, e infatti lo è; quando poi a tutto questo il direttore aggiunge il cuore e il talento… allora sarà proprio lui, che ha una bacchetta che non suona, a tirar fuori il suono migliore, le lacrime, il sorriso e le emozioni più forti in chi suona, in chi canta e in chi ascolta.

Lui, da quell’isola solitaria di un metro quadro che si chiama podio e che emerge tra due moltitudini: l’orchestra e il pubblico.

 

 

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