Il racconto di un amore platonico, il luccichio del mare, il vento, un pianoforte, un capolavoro: “Caruso”.

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di Smeralda Nunnari

«Se canto il pop è colpa di Caruso» (Luciano Pavarotti).

Caruso è uno dei brani più significativi e famosi di Lucio Dalla, composto nel 1986, ispirato dal cantante lirico napoletano che, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, viene applaudito nei teatri russi e americani. Enrico Caruso lascia la sua Napoli nel 1903 su invito del Metropolitan Opera House di New York, preceduto prima dalla sua voce, registrata in rulli a Milano, l’anno precedente. Egli riesce a esportare la cultura partenopea nel mondo dello spettacolo americano: il cinema muto, l’industria della canzone, la letteratura popolare, un teatro vivace, diventando la prima celebrity e New York lo proclama The greatest singer in the world.

La genesi del brano, diventato subito un classico della canzone italiana e napoletana, viene raccontata dallo stesso cantautore bolognese, che ha regalato nella sua carriera al mondo musicale nazionale e internazionale preziose perle di musica leggera: «Ero in barca tra Sorrento e Capri con Angela Baraldi: stavamo ascoltando le canzoni di Roberto Murolo quando ci si ruppe l’asse del motore. Andammo a vela per qualche miglio e poi chiamai un amico, il proprietario dell’hotel Excelsior Vittoria, che ci trainò al porto. In attesa che aggiustassero la barca, ci invitò a passare la notte in hotel, proprio nella suite dove morì Caruso. C’era tutto, anche il pianoforte, completamente scordato. Quella sera un altro amico, giù al bar La Scogliera, mi raccontò di un Caruso alla fine dei suoi giorni, innamorato di una giovane cantante cui dava lezioni. Era uno stratagemma per starle vicino, ma l’ultima sera, sentendo la morte arrivare, fece portare il piano sulla terrazza e cantò con un’intensità tale che lo sentirono fino al porto.»

Così l’artista dipinge in versi e in musica la scena degli ultimi momenti del tenore in un capolavoro struggente e appassionato, una confessione d’amore e di sofferenza profonda, proprio in quella stanza, con lo stesso pianoforte, usato da Caruso. Dalla ricorda nella canzone la malattia del tenore, in uno sfondo che diventa fondamentale per la poetica del cantautore: «Qui dove il mare luccica e tira forte il vento, su una vecchia terrazza davanti al golfo di Surriento». La musica in minore definisce l’atmosfera triste e cupa. La descrizione dell’uomo che abbraccia una ragazza, dopo che aveva pianto, un’attrazione che stringe come una catena. L’unione sinestetica tra la musica, i sentimenti, il pianoforte, le lacrime della ragazza, il canto diventano immagini che s’incatenano nel ritornello: «Te voglio bene assaje, ma tanto tanto bene sai è una catena ormai, che scioglie il sangue dint’ ‘e ‘vvene sai.»

Ecco la luce in mezzo al mare, il riaffiorare malinconico delle notti americane, ripensa alla sua vita, ai successi, alle luci e ai fasti della sua carriera. All’infinite maschere indossate nel suo percorso artistico «Potenza della lirica, dove ogni dramma è un falso, che con un po’ di trucco e con la mimica puoi diventare un altro».

E alla fine di tutto, della propria vita «sentì il dolore nella musica, si alzò dal pianoforte», ma al manifestarsi della luna tra le nuvole, unica luce nel buio, guardando gli occhi verdi della ragazza «così vicini e veri» sente più dolce persino la morte, «così diventa tutto piccolo, anche le notti là in America ti volti e vedi la tua vita come la scia di un’elica».

Caruso può finalmente essere se stesso, strappare, annientare ogni maschera e accettare l’inesorabile fine che lo attende, cantando per l’ultima volta il suo grande amore, che ancora una volta lo salva insieme alla musica, una sublime ascesi che lega, scioglie, eleva. «Ma sì, è la vita che finisce, ma lui non ci pensò poi tanto anzi, si sentiva già felice e ricominciò il suo canto.»

Quando Caruso muore nel 1921, l’Illustrazione italiana scrive questa frase: «Caruso diede una voce melodiosa a quel popolo muto che attraversava gli oceani verso terre ingrate». Definito la Star dei due mondi, il tenore napoletano con la sua voce potente, oscura e pantonale, nei suoi innumerevoli concerti riesce a mescolare e unificare la bandiera italiana e quella americana. Dopo Caruso, tutti gli altri interpreti del bel canto si sono confrontati con lui, considerandolo un’icona, un modello da seguire.

E per Lucio Dalla che, in quegli anni si accinge a partire per un tour negli Stati Uniti, il grande tenore rappresenta un mito a cui rendere omaggio, dedicando di getto questa canzone, senza tempo, ispirato dal luogo e dagli oggetti ritrovati in quella stanza piena di ricordi, una canzone che l’ha reso famoso in tutto il mondo.

Il brano presentato per la prima volta alla Rassegna San Martino Arte, viene inserito nell’album DallAmeriCaruso, diventa disco di platino e ottiene la targa Tenco come migliore canzone dell’anno. Incisa da numerosi interpreti, tradotta in varie lingue, riscuote un successo planetario.

 

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