Il richiamo del contemporaneo. Intervista ad Ada Gentile.

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di Ruben Marzà

Pianista e compositrice, Ada Gentile, 74 anni, di Avezzano (L’Aquila), è tra gli artisti italiani più conosciuti e affermati del panorama internazionale: le sue opere sono state eseguite in sedi prestigiose come il Centre Pompidou di Parigi, il Mozarteum di Salisburgo e la Carnegie Hall di New York. Dal 1978 è Direttore Artistico del Festival Nuovi Spazi Musicali, nato a Roma e dal 2013 trasferito ad Ascoli Piceno.

Maestro Gentile, ho avuto il piacere di conoscerla nell’ambito del concorso pianistico Maria Giubilei, con il quale collabora ormai da diversi anni. Quanto sono importanti i concorsi per i musicisti e per il mondo della musica in generale?

Non amo molto essere in commissione ai concorsi, il Maria Giubilei di Sansepolcro è forse l’unico che frequento stabilmente, ormai dal 2006, e devo dire che il livello dei partecipanti è davvero notevole. Abbiamo anche aggiunto una sezione sulla musica contemporanea, soprattutto per sviluppare e far conoscere la tecnica cameristica del pianoforte. Credo che la contemporanea debba essere studiata e approfondita, conoscere i nostri contemporanei è non solo un diritto, ma un dovere; da compositrice cerco sempre di spingere in questa direzione, e in questo caso la proposta è stata un successo per quantità e qualità.

 

Da pianista, come ha visto cambiare in questi anni il mondo dei concorsi e l’approccio dei pianisti?

Mi sento di condividere le parole di Riccardo Muti, quando afferma di non riconoscere più questo mondo. Tutto il panorama della cultura è mutato, rispetto al tempo in cui la nostra generazione è cresciuta e ha studiato. L’approccio dei ragazzi è sicuramente cambiato, c’è un tecnicismo incredibile che ci arriva soprattutto dai paesi orientali – ma questo anche nella composizione: tecnica spesso fine a se stessa, che nasconde l’assenza dell’idea. Il computer, poi, ha sostituito completamente la nota scritta a mano, e questo io lo rifiuto francamente: non c’è più il tempo di dedicarsi a quella pagina, che mi diventa estranea. Un importante elemento di fisicità e manualità è andato perso.

 

Il Festival Nuovi Spazi Musicali ha ormai raggiunto la 42° edizione: come si costruisce e si consolida un pubblico per la musica contemporanea?

Per creare un interesse occorre lavorare molto. Il pubblico romano era forse più addormentato, ad Ascoli ho trovato una platea più genuina e desiderosa di sapere, gli spettacoli sono sempre sold out. Non è vero che la gente non va ad ascoltare la contemporanea, il pubblico va invogliato, accarezzato, guidato: il pubblico va creato, e dispiace che le istituzioni non lo abbiano mai capito. Ma serve la presenza e la competenza di chi organizza.

 

Tra le peculiarità del festival possiamo citare le operine tascabili: come coniugare due elementi apparentemente lontani, come il linguaggio contemporaneo e l’opera buffa?

Le Marche sono una terra di grande tradizione lirica. Mi sono inventata questo nuovo genere nel 2013, e devo dire che ha avuto un grandissimo successo. Le operine sono tascabili perché devono essere veloci, con pochi esecutori e facilmente adattabili. Anche grazie ai costi contenuti sono state eseguite in America. Il problema è che è sempre più difficile trovare compositori che sappiano scrivere buffo, molti rinunciano: oggi non è facile far ridere, è proprio un problema di linguaggio. Ma il pubblico si diverte, e non è facile far divertire con la musica.

Nel suo repertorio trova ampio spazio la voce recitante, molto meno la voce in senso tradizionale. A cosa è dovuta questa sua scelta?

Ho sempre considerato la voce come uno strumento, le poche volte che l’ho usata l’ho inserita in mezzo agli altri esecutori. Il fatto è che, per me, la parola è già esauriente, è già un suono, una sintesi – che per me è la qualità maggiore, in un artista. Per questo mi sento in difficoltà a usare la voce cantata. La parola è già sintesi, è già quello di cui ho bisogno. Quando ascoltiamo un’opera, il testo non lo ascoltiamo, siamo molto presi dalla musica, è quello che ci affascina maggiormente. Questo vale in modo particolare per la lingua italiana, con le sue tante inflessioni: “suono”, con questa s così forte e pesante, è già suono.

 

La voce recitante è anche un mezzo per avvicinarsi a testi e autori particolari – penso a Stefano Benni, molto presente nella sua produzione.

Ammiro moltissimo Benni. Nella scorsa edizione del festival è andata in scena proprio una mia operina, Contaminazioni musicali, ispirata ai buffi animali descritti da Benni nel suo Stranalandia – che già avevo considerato in Animali di Stranalandia, per sax baritono e voce recitante. È stato un bel modo per uscire da questo periodo di chiusure, cancellazioni e concorsi a distanza. Mi avevano anche invitato a Chicago come professore associato, ma tutto è saltato causa pandemia ed è stato un vero peccato, perché l’America è talmente bella.

 

Ecco, ci parli un po’ delle sue esperienze americane.

Sono andata negli Stati Uniti nei primi anni 90, e mi sono trovata benissimo: i concerti sono di grande bellezza, c’è una grande partecipazione emotiva del pubblico, e gli esecutori sono molto bravi. C’è molta qualità, forse più studio e più voglia di essere precisi. Noi italiani non ce ne rendiamo conto, ma all’estero siamo molto apprezzati; io me ne sono accorta maturando esperienze in giro per il mondo, ma in genere tendiamo a dimenticarcelo. L’esperienza americana è stata molto importante per me, sono stata anche invitata alla Northwestern University dove hanno lasciato il segno personaggi come Berio o Boulez. Però non sono mai riuscita a trasferirmi definitivamente, l’Italia ha sempre rappresentato un grande richiamo.

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