La Sonata n. 17 Op. 31 n. 2 e la sua chiave esegetica ne “La Tempesta” di William Shakespeare.

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di Smeralda Nunnari

«L’isola è piena di questi sussurri, di dolci suoni, rumori, armonie… A volte son migliaia di strumenti che vibrando mi ronzano agli orecchi; altre volte son voci sì soavi, che pur se udite dopo un lungo sonno, mi conciliano ancora con Morfeo, e allora, in sogno, sembra che le nuvole si spalanchino e scoprano tesori pronti a piovermi addosso; ed io mi sveglio, nel desiderio di dormire ancora…»

 (William Shakespeare, La Tempesta, Atto III, 2, vv. 148-156)

 

La Sonata n. 17 in re minore occupa il secondo posto nel trittico dell’opera 31, composta attorno al 1802, nel periodo del Testamento di Heiligenstadt, in cui Beethoven confessa ai suoi fratelli: «… Nato con un temperamento ardente e attivo, sensibile anche alle attrazioni della società, ho dovuto ben presto isolarmi e trascorrere la vita in solitudine… Come potrei, ahimè, rivelare la debolezza di un senso che io dovrei possedere più perfetto di ogni altro, un senso che ebbi dotato di grandissima perfezione, quale certamente poche persone del mio mestiere hanno mai avuto! No, non posso. Perdonatemi dunque se mi vedete vivere in disparte, mentre vorrei mescolarmi tra voi…»  Con questa lettera drammatica, mai consegnata, né recapitata, esprime tutta la sua disperazione per la crescente sordità, che lo accerchia, in un destino di solitudine. Sono gli anni delle intime, intensissime e deludenti passioni per le contessine Therese Brunswik e Giulietta Guicciardi. Spinto dall’angoscia, al limite del suicidio, il compositore si aggrappa al suo talento creativo: «Catturerò il destino afferrandolo per il collo. Non mi dominerà.», reagendo vigorosamente alla disperazione, si propone un riscatto artistico. A testimoniare che l’opera 31 sia una risposta a tale insoddisfazione sono le stesse parole dette da Beethoven al suo amico Wenzel Krumpholz, dopo la pubblicazione dell’op. 28 e riportate dal suo allievo Carl Czerny in un passo delle Memorie: «Sono ancora poco soddisfatto delle opere che ho scritto finora, d’ora in poi voglio seguire una nuova strada».

Il suo linguaggio musicale si evolve verso una straordinaria potenza rappresentativa, in cui s’assiste all’inasprimento del contrasto dialettico fra i due opposti principi del dolore della vita e dell’energia indomabile, insieme ad un sempre più crescente isolamento dalla società. Il risultato di questo stato d’animo si manifesta nella crisi della forma-sonata, evidente dalla denominazione data alle due sonate op. 27: sonata quasi una fantasia.

La Sonata op. 31 n. 2 riflette interamente, sin dalle prime battute, questa rottura con lo schema formale tradizionale che è nel contempo rottura con la società e l’intero passato. Tra la serie delle sonate è, indubbiamente, la più amata e discussa, deve il titolo: La Tempesta, con cui è conosciuta e la sua fama al racconto di Anton Schindler, che, nel 1823, a vent’anni dalla sua composizione, chiede a Beethoven una chiave di lettura per comprendere e interpretare questa sonata e alla risposta «leggete La Tempesta di Shakespeare».

Nella microforma della composizione sono presenti le più radicali novità, infatti pur mantenendo, nella macroforma, la tradizionale successione dei tre movimenti, all’interno di ognuno sono presenti formidabili innovazioni. Ora a Beethoven interessa ogni battuta, ogni nota, in modo che tutto assuma dinamismo e vitalità di significato. La tonalità de La Tempesta è il re minore, la stessa che Mozart aveva usato nel Concerto per pianoforte e orchestra K 466, una delle sue opere più cupe e diaboliche, e che Beethoven impiega in questa Sonata e nella Nona Sinfonia.

L’eccezionalità di questa Sonata si rivela fin dall’attacco del primo tempo: due battute di Largo, consistenti solo in un tenebroso arpeggio che parte dal registro basso della tastiera, descritto da Giovanni Carli Ballola «come cerchi concentrici di onde che muovano dalle profondità d’uno specchio d’acqua livido e oscuro». A cui si contrappone un Allegro di quattro battute, con una scala discendente frammentata in ansimanti figurazioni, che si affievoliscono in una battuta di Adagio. Il Largo e l’Allegro si ripetono una seconda volta. L’ascoltatore confuso, prova a orientarsi con quanto ricorda di Haydn, Mozart e Beethoven, pensa a un’introduzione che preceda l’esposizione dei temi d’un solito Allegro iniziale in forma-sonata, ma tali schematizzazioni e denominazioni non hanno più alcuna ragion d’essere. L’arpeggio e la scala, pur non costituendo un’introduzione, né un’esposizione tematica, racchiudono in nuce i temi che si svelano più tardi, in un profilo marcato, ma reso ambiguo da una evidente instabilità armonica: il primo tema deriva dall’arpeggio del Largo e inizia dal basso accompagnato da una figurazione di ostinate terzine, il secondo, derivato dalla scala discendente dell’Allegro, è un affannato passaggio cromatico. Il primo tema predomina nell’esposizione e nello sviluppo, ma non viene ripreso nella conclusione del movimento e lo stesso Largo torna più volte, all’inizio dello sviluppo e della ripresa, dove si prolunga in due brevi recitativi: con espressione semplice, in cui il compositore carpisce alla parola ogni cadenza ed espressività, tentando di riprodurle in musica. Per Czerny tale recitativo «deve risuonare lamentoso, come da una grande lontananza», invece, secondo Beethoven, subito dopo, nel crescendo e nei cinque accordi fortissimi all’inizio della ripresa «il pianoforte deve spezzarsi». La coda, con la sua intensa drammaticità, riesce a spingere oltre la già espressiva curva ascendente di questo vigoroso movimento.

L’Adagio, in un delicato illuminato si bemolle maggiore, dona un netto contrasto con il tormentato primo movimento, grazie alla sua forma limpidamente simmetrica e il tono raccolto di una meditazione dolcemente nobile, serena, ma turbata dalla minacciosa agitazione scaturita, come rileva Carli Ballola, dagli «attutiti rulli di timpano che punteggiano, come tuono in lontananza, la malcerta “quiete dopo la tempesta” dell’Adagio».

L’Allegretto, come il movimento iniziale, è in forma-sonata con i due temi in tonalità minore. I violenti contrasti si sono, ormai, dileguati. Affiora un agitato senso d’ansia, che culmina inesorabilmente in un’incessante corsa, priva di respiro fino alla fine, che arriva, senza preparazione e imprevedibilmente, semplice, spoglia e senza alcuna retorica. Czerny sostiene che il compositore realizza tale movimento dopo aver visto passare un cavaliere al galoppo, tra la nebbia, all’ora del crepuscolo, da una finestra della sua casa di Heilingenstadt. Nel violento moto perpetuo delle semicrome oscillanti che caratterizzano l’Allegretto, il galoppo del cavallo si presenta interamente trasfigurato, tra l’effettiva sensazione di nebbia sottile che vela questa musica, il cui profilo è delineabile nettamente soltanto a tratti.

Il nuovo sentiero intrapreso, con La Tempesta che rispecchia tutto il tumulto interiore dell’artista lo conduce verso la Sinfonia Eroica. Entrambe le composizioni contribuiscono a fondare il mito di un Beethoven, nuovo Prometeo, che dona all’intera umanità un messaggio morale potentissimo: la terribile lotta perpetrata con la vita stessa può condurre da un’abissale oscurità alla luce, dalla sofferenza alla gioia, preannunciando la Nona Sinfonia e l’ultimo grande stile beethoveniano.

I suoi famosi Konversationshefte (Quaderni di conversazione) che trascrivono la frase conclusiva della Critica della Ragion Pratica di Kant: «la legge morale in me, il cielo stellato sopra di me!», testimoniano il rigore morale del nostro compositore. Testo di chiaro significato illuministico che contiene i germi di un pensiero romantico, almeno per quanto riguarda quel vago senso di panteismo naturalistico che si trova in Goethe, come in Beethoven. E, dai Fondamenti della metafisica della scienza della natura dello stesso autore, annota questo passo: «Nell’anima, come nel mondo fisico, agiscono due forze, egualmente grandi, ugualmente semplici, desunte da uno stesso principio generale: la forza di attrazione e quella di repulsione» che lo portarono a individuare per analogia il Widerstrebende Prinzip e il Bittende Prinzip, ossia il principio di opposizione e il principio implorante, principi che nella sua opera divengono temi musicali in conflitto reciproco, il primo robustamente caratterizzato da energia ritmica e precisa determinazione tonale, l’altro piano, melodico e modulante.

Questo non è che il punto di partenza, una delle premesse su cui si svilupperà tutto il pensiero musicale di Beethoven che, nella struttura delle sue ultime forme sonate, fa emergere, in un processo dinamico, una creazione che sorge dallo sviluppo storico, come risoluzione di un conflitto, senso di lotta, che manca nelle antinomie kantiane. Le sue composizioni nei principi strutturali e nel processo di sviluppo, presentano indubbie analogie con il processo dialettico del pensiero hegeliano. La tesi, l’antitesi, nel loro scontro dialettico, portano ad un processo di sintesi superiore, che tradotto in musica ci conducono al sonatismo beethoveniano. Un’arte che non scompare, insieme ad ogni altra, soppiantata dal trionfo assoluto del pensiero, secondo la presunzione della teoria filosofica di Hegel, a cui resta il torto di non accorgersi del genio di Beethoven, suo contemporaneo, nella stessa Germania, nato anch’egli nel 1770.

 

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