L’anatomia del pianista. Intervista a Luca Chiantore.

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di Stefano Teani

Divulgatore appassionato, Luca Chiantore (57 anni, milanese) non è solo pianista, musicologo e ricercatore, ma anche autore di libri tradotti in inglese e spagnolo. Storia della tecnica pianistica. Prassi, repertorio, gestualità e Beethoven al pianoforte. Improvvisazione, composizione e ricerca sonora negli esercizi tecnici sono infatti testi già noti e ampiamente utilizzati in Spagna e America Latina. La sua passione per l’indagine dei meccanismi fisici che stanno dietro alla performance musicale lo ha portato a creare il primo Master al mondo di Biomeccanica della tecnica pianistica. All’edizione 2023 di Cremona Musica International Exhibitions and Festival ha presentato la versione italiana della sua Storia della tecnica pianistica, edita da LIM.

 

 

Ci parli un po’ di lei e della sua esperienza internazionale.

Sono nato in Italia, dove ho compiuto i miei studi musicali, per poi trasferirmi in Spagna dal 1991, quindi ho passato più di metà della mia vita in questo Paese. Da lì ho poi viaggiato molto, soprattutto in America Latina, motivo per cui la mia carriera si è sviluppata prevalentemente in quel continente o comunque al di fuori dell’Italia.

 

Anche il suo libro sembra aver compiuto uno strano viaggio.

Esattamente, a Cremona Musica ho presentato insieme all’editore Andrea Estero di LIM il mio Storia della tecnica pianistica, che in realtà è già ampiamente diffuso nei Paesi che ho citato, quindi è nato in spagnolo. È stato poi tradotto in inglese e, proprio da questa traduzione, ne è derivata la versione italiana. Effettivamente si tratta di un percorso un po’ bizzarro, trattandosi di un autore italiano…

 

“Nemo profeta in patria”, verrebbe da dire…

Quasi tutti i pianisti che studiano in America Latina mi conoscono come l’autore del “librone arancione”, perché è un testo adottato da tutti i conservatori. In Italia invece non sono altrettanto conosciuto, avendola lasciata dopo la fine degli studi. Nel 2014 il Saggiatore ha pubblicato il testo di impronta più musicologica, Beethoven al pianoforte, ma anche quello, al di là di alcune presentazioni, ha avuto una divulgazione limitata nel nostro Paese.

 

All’attività di docenza e scrittura affianca anche quella performativa?

Dopo il periodo di formazione in conservatorio ho studiato composizione per poi dedicarmi a tempo pieno alla musicologia. Posso dire di aver recuperato un contatto più diretto con il pianoforte negli ultimi anni, pur restando sempre all’interno della dimensione della ricerca artistica. La mia attività pianistica è diretta all’indagine di nuovi formati, di nuovi metodi per mettersi in relazione col repertorio classico. L’idea è quella di sfidare la continuità della tradizione, prendendo la prassi esecutiva come stimolo per ripensare la relazione col testo e il formato del concerto.

 

 

Il suo rapporto con l’insegnamento?

Sono docente di Musicologia alla Escola Superior de Música de Catalunya di Barcellona, quindi è lì che esprimo la mia parte più “teorica”. Invece la relazione col pianoforte, che era stata particolarmente intensa dall’inizio della mia vita in Spagna, l’ho approfondita prevalentemente in due aspetti: lo studio storico e quello anatomico. Il primo riguarda il chiedersi come è nata quella musica, in funzione di quale modo di suonare: si tratta di approfondire, riferendosi alla prassi esecutiva, l’aspetto più “corporale”. Non dobbiamo dimenticare che il repertorio è nato “tra le mani” di autori che erano in prima persona dei virtuosi, e che basavano la propria carriera sul loro modo di suonare. È interessante vedere come la loro ricerca di nuovi linguaggi avvenisse sullo strumento che – di fatto – costituiva la loro fonte di sostentamento: Beethoven e Chopin vivevano di insegnamento e concerti, prima ancora che di composizione.

 

E l’aspetto anatomico invece?

Questo studio intende indagare come fattivamente si produca il suono. Secondo me si tratta di una grande mancanza dell’insegnamento classico: il pianista medio non sa neanche come si chiamino i muscoli che gli consentono di schiacciare un tasto, non sanno quali leggi fisiche stiano dietro ai suoi movimenti. A volte si sente parlare di “peso”, di “inerzia”, ma non sappiamo davvero a che cosa ci stiamo riferendo. Tantomeno siamo in grado di capire i segnali che il corpo ci dà, i dolori che possono coglierci durante l’attività, finché non arriva una tendinite, una distonia o qualcosa di gravissimo e allora andiamo a cercare la consulenza di un esperto. Io personalmente non sono mai arrivato al punto di sperimentare queste patologie, però ho sempre trovato inspiegabile questa scarsa consapevolezza.

 

Dal suo punto di vista, quindi, per i musicisti sarebbe d’obbligo un esame di anatomia?

Nel mondo dello sport gli atleti non sono medici, però conoscono molto bene il funzionamento del proprio corpo. Sanno che cosa succede durante l’allenamento e la performance e questo gli consente di acquisire una maggiore consapevolezza e gestire al meglio le loro risorse, evitando al tempo stesso danni e incidenti di vario tipo. Non vedo perché, in campo musicale, non debba essere così.

 

Quali riscontri ha avuto in merito a questo suo approccio?

Positivi, grazie anche all’apertura e all’accoglienza del contesto spagnolo. Dopo aver trovato altre persone interessate all’indagine più anatomica e scientifica del pianismo, ho cominciato a organizzare delle attività, è nato gruppo di ricerca e oggi abbiamo all’attivo (da quattro anni) un programma di Master, unico a livello mondiale, incentrato sulla biomeccanica dell’esecuzione pianistica. Il mio libro, presentato a Cremona Musica, non è legato a questo aspetto, però ricalca il mio modo di vedere la storia attraverso la lente della fisicità, dal punto di vista del corpo. Per dirla alla Elisabeth Le Guin [violoncellista e musicologa americana, ndr], una “musicologia carnale”, orientata a chi la musica la fa.

 

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