L’anima del pianoforte. Intervista a Giulio Passadori.

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di Maria Musti

La storia della bresciana Passadori Pianoforti inizia nel 1909, anno in cui il capostipite Giuseppe, all’epoca sedicenne, decise di vendere la sua bicicletta per comprarsi un vecchio pianoforte da riparare. Oltre un secolo di attività, che il nipote Giulio, tecnico accordatore, racconta con pacatezza, affetto e orgoglio: dalle sue parole traspare tutto l’amore per un mestiere che rappresenta, prima di tutto, una grande passione. Lo abbiamo incontrato all’edizione 2023 di Cremona Musica International Exhibitions and Festival dove la Passadori, titolare dell’unica Steinway Gallery della penisola, rappresenta la storica casa di Amburgo e cura amorevolmente il pianoforte gran coda proveniente dal loro showroom.

 

 

Com’è nata la Passadori Pianoforti?

Grazie alla passione di mio nonno Giuseppe, che a 16 anni riparò da solo il suo primo pianoforte: aveva manualità e gusto per la meccanica, avendo fatto un po’ di pratica con suo zio, figlio di un costruttore di clavicembali, cui chiedeva aiuto quando si trovava di fronte a qualcosa che non sapeva come risolvere. All’inizio si trattava di un hobby, visto che lavorava  presso un negozio di ferramenta: circostanza che, di fatto, gli ha messo a disposizione tutti gli attrezzi necessari. Qualche anno più tardi fare il tecnico dei pianoforti era diventato il suo lavoro principale; il suo primo laboratorio era nella cucina di casa, al terzo piano.

 

Non certo la collocazione ideale…

Infatti! Poi ne trovò uno a piano terra, e in seguito uno un po’ più grande. A un certo punto arrivarono in laboratorio i suoi tre figli, mio padre e i suoi due fratelli, che si trovarono a partecipare senza  nemmeno rendersene conto. Stessa cosa è successa con la generazione successiva…

 

La sua.

Io, mia sorella Angela mio cugino Giuseppe restammo subito incantati da quella macchina meravigliosa che è la meccanica di un pianoforte. Ci giocavamo, combinando disastri [ride]. Dapprima ci fu vietato l’ingresso, poi fummo messi agli strumenti da demolire, a separare i materiali, con degli attrezzi appositamente adattati alla nostra piccola statura: era un gioco divertentissimo. Dallo smontaggio passammo agli esemplari da restaurare, poi al rimontaggio…e anche noi ci siamo così ritrovati, senza quasi rendercene conto, a essere accordatori.

 

Torniamo a nonno Giuseppe.

In passato i pianoforti erano tutti di un certo valore, e mio nonno, dopo la guerra, si dedicò a un lungo lavoro di recupero: ne riportò alla luce tanti che erano stati nascosti, per salvarli dalle bombe, in granai o fienili. Decise poi di dedicarsi anche alla vendita di strumenti nuovi: la prima licenza è del 1927. Cominciò con pianoforti italiani, come gli Schulze Pollmann di Bolzano, risultato della fusione di due aziende (1928): la Schulze di Zwickau e la Pollmann di Torino. Si tratta della fabbrica in cui gli accordatori della generazione mia e di mio padre hanno mosso i primi passi.

 

Ma in famiglia non c’è solo il pianoforte ad accomunarvi…

Oltre che accordatori, siamo tutti motociclisti. Compiuti 14 anni, chiesi a mio padre se potessi fare un viaggio: con mio grande stupore acconsentì subito a farmi fare il giro delle Dolomiti. Mi aveva organizzato una sorpresa: avrei lavorato alla Schulze Pollmann, a Pineta di Laives, dalle 8 alle 16. Poi avevo 3 ore per farmi il tanto desiderato giro, valle per valle: alle 19 dovevo farmi trovare – c’era il controllo telefonico – in albergo, pena il sequestro del motorino. Anche mia sorella e mio cugino hanno fatto là il loro periodo di apprendistato. Dopo l’esperienza bolzanina ci sono state le specializzazioni in altre fabbriche: Bechstein, Yamaha e soprattutto Steinway.

 

Come si diventa apprendisti Steinway?

C’è una forte selezione in ingresso, perché si lavora su pianoforti che verranno completati e venduti: ci si può iscrivere al primo livello, mentre i successivi sono solo su invito, in base al punteggio ottenuto. Seguii anche un corso di restauro, superato il quale fui invitato alla fase di volontariato in fabbrica: dopodiché si poteva accedere ad altri reparti. Ciascuna fase dell’apprendistato si conclude quando raggiungi il livello di precisione richiesto.

 

Uno standard altissimo.

Il procedimento costruttivo è diverso e quindi ci sono procedimenti particolari da seguire. Ogni strumento è corredato da un documento, sui cui vengono annotate tutte le operazioni e chi le effettua; se il risultato non è pari allo standard previsto, bisogna rifare tutto da capo. Ogni operazione successiva funge da ulteriore controllo, perché, ad esempio, delle corde mal posizionate impediscono di montare gli smorzatori. Al termine della costruzione il pianoforte riceve il suo numero di matricola, e il documento viene conservato in fabbrica come traccia di chi ci ha lavorato. Se l’acquirente dovesse riscontrare un problema, la ditta rimborserà l’intervento tecnico, ma verificherà il responsabile dell’operazione imprecisa: dovrà lavorare su un altro strumento, gratis… e le volte successive starà sicuramente più attento!

 

Ci sono altri livelli?

L’Accademia, che forma i tecnici da concerto: l’unico corso nel quale si ha un tempo limitato per lavorare sullo strumento, avendo un’esibizione già calendarizzata. Si riceve il pianoforte il lunedì e bisogna riconsegnarlo il venerdì a mezzogiorno.

 

Anche al concorso Busoni, al quale ha partecipato quest’anno, i tempi sono stretti, immagino.

Decisamente. I pianisti sono tantissimi, ed essendo una gara deve essere ad armi pari. Ad ogni pausa, anche durante il coffee break di un quarto d’ora, io riaccordo il pianoforte: tutti i concorrenti devono avere la possibilità di suonare uno strumento preparato alla perfezione.

 

Quali sono i criteri in base ai quali sceglie quale strumento portare al Concorso?

Ormai sono 15 anni che la Steinway & Sons ha incaricato la Passadori Pianoforti di fornire gli strumenti per questo concorso, mentre prima li faceva arrivare a Bolzano direttamente da Amburgo. Scelgo per la finale due pianoforti gran coda perfettamente regolati, e non proprio identici tra di loro: il modello è lo stesso, ma uno ha un suono più chiaro e l’altro più scuro. Qui a Cremona ho portato uno dei due finalisti di quest’anno, Theodor: ogni pianoforte ha un nome, innanzitutto perché per noi sono un po’ come dei figli, e poi perché non mi ricordo i numeri di matricola [ride].

 

Dopo tutto ogni strumento possiede una propria personalità, una propria “anima”.

Non sono certo il solo, infatti: la cosa divertente è che anche i pianisti ora chiamano gli strumenti per nome. Ad esempio, il pianista russo Nikolaj Luganskij di recente mi ha telefonato per scegliere il pianoforte da utilizzare per il suo prossimo disco e mi ha chiesto: «Giulio, che ne dici? Henry o Edward?». La scelta dipende dal tipo di sala, dal programma, e ovviamente dal pianista stesso. Per i giovani poter usare un pianoforte brillante è una cosa rassicurante: è come avere una macchina potente, da poter “tirare” quando necessario. Bisogna però anche essere in grado di controllarla, questa potenza.

 

Qual è stata la scelta dei finalisti?

Arsenii Mun [vincitore del concorso, ndr] ha scelto Ferdinand, ma, come sempre, sono arrivati sul palco entrambi gli strumenti: gli altri due hanno scelto Theodor.

 

È d’accordo sulla scelta del vincitore?

Ni. Le spiego: io ascolto tutti i concorrenti non solo durante la gara, ma sin dalle prove e dalla scelta dello strumento. In un certo senso, li conosco meglio della giuria. Ovviamente tendo a preferire chi suona brani a cui sono più legato, ma visto che la qualità del tempo che trascorriamo assieme è molto intensa mi affeziono a ciascuno di loro. Non potrei mai esprimere un giudizio.

 

Ha tuttavia un preferito, tra tutti i concorrenti che ha incontrato in questi 15 anni?

Per me è difficilissimo scegliere, proprio per i motivi appena citati: ogni volta che lavoro con un pianista in quel momento, in quel posto, quello deve essere “il concerto della vita”. Quello del pianista è un lavoro difficilissimo, anche perché i momenti davvero importanti non li si affronta con il proprio strumento, ma con quello che si trova sul palco: può anche essere il migliore del mondo, ma non sarà mai il tuo. Io faccio da connessione tra interprete e strumento, e chiedo cosa piace, cosa no, cosa posso fare: al termine di ogni fase del concorso sono dispiaciutissimo per chi non viene ammesso alla successiva. Nascono delle belle amicizie, e a volte degli incontri imprevisti a distanza di anni: Michail Lifits, il vincitore del primo Busoni da me curato, l’ho ritrovato sul palcoscenico del teatro di Vilnius.

 

Le è mai capitato di sentirsi fare qualche richiesta fuori dalle righe?

No. Lavorare con i grandi interpreti è facile, anche perché loro stessi sono in grado di ovviare a eventuali manchevolezze dello strumento. Solo una volta, durante una masterclass, mi capitò di restare negativamente colpito dal docente, un noto concertista, per il modo in cui si rivolse a un corsista – tra l’altro un vincitore del Busoni – che a suo dire non conosceva le note, e quindi aveva bisogno del leggio per suonare. Prima e oltre che musicisti siamo esseri umani, e ritengo che il rispetto sia indispensabile, sempre.

 

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