Ricerca, tecnica e interpretazione pianistica. Intervista a Luca Chiantore.

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di Salvatore Sclafani

Luca Chiantore, pianista, musicologo e ricercatore di rilevanza internazionale, docente di Teoria dell’interpretazione alla Escola Superior de Música de Catalunya e dal 2003 direttore di Musikeon, è oggi uno dei massimi esperti nello studio della storia della tecnica e dell’esecuzione pianistica. La sua Storia della tecnica pianistica, già largamente diffusa e apprezzata in Spagna e in America Latina e da alcuni anni presente anche sul mercato anglofono, approda finalmente in Italia nelle edizioni LIM, tradotta dalla versione inglese riveduta ed ampliata. Essa costituisce un punto di riferimento imprescindibile nel mondo della letteratura specializzata. L’autore l’ha presentata a Cremona Musica 2023, insieme all’editore Andrea Estero.

 

Con quali sentimenti ha accolto l’invito a Cremona Musica per presentare la traduzione in italiano del suo libro?

Mi ha reso molto felice. È stato un grande piacere e un vero onore. Questo testo rappresenta un progetto che mi accompagna da trent’anni: è un libro nato in spagnolo, inizialmente sotto forma di appunti. A poco a poco, ho cominciato a pensarlo come un volume, essenzialmente per il mercato spagnolo, e in questa versione è sul mercato da diversi anni, ormai: la sua pubblicazione risale, infatti, al 2001. Oggi, conta ben dieci di ristampe ed è stata adottata nelle università di 15 Paesi. All’inizio, non mi aspettavo certo un così grande consenso e questa diffusione. Sono contento, certamente.

Ho avuto poi l’occasione di tradurlo in inglese, nel 2019; per questa nuova pubblicazione, col titolo Tone Moves: A History of Piano Technique, ho revisionato, aggiornato e ampliato notevolmente il testo. La LIM si è interessata al libro e ha richiesto di poterne realizzare un’edizione italiana. Nel frattempo, mi era giunta la proposta di Francesco Pareti, docente al Conservatorio di Napoli, di farne una traduzione: è stata una congiuntura favorevole, in cui tutte le nostre volontà si sono incontrate.

Il testo presenta 900 pagine, con 710 riferimenti bibliografici, e rappresenta il mio tentativo di riassumere una storia che potrebbe essere in realtà ancora più lunga: sulla tecnica pianistica c’è, ovviamente, molto da dire. Spero che la versione italiana susciti lo stesso interesse della versione spagnola e di quella inglese.

 

In cosa consiste la struttura del libro?

Esso ha una base musicologica, specifica della mia attività, legata alle prassi esecutive pianistiche. Ho scelto di adottare un approccio specifico, attento al corpo e a tutto ciò che quest’ultimo apporta come mezzo di ricerca, spazio di esplorazione, prospettiva di studio. Ecco, ho voluto concentrarmi, soprattutto, sulla relazione fra corpo e pianoforte. La parte musicologica del mio testo è proiettata sul “cosa fare”, sugli aspetti più pratici del nostro modo di avvicinarci, da interpreti, al grande repertorio pianistico. Tale patrimonio ci lancia delle sfide: da interpreti, dobbiamo capire meglio il passato per poi agire nel presente. Ho voluto, per l’appunto, cercare di rispondere a quest’esigenza, che mi sta molto a cuore, e farlo partendo degli aspetti più strettamente fisici dell’esecuzione, quelli che ci legano al corpo: il nostro, evidentemente, ma anche quello di chi quelle partiture le ha scritte. Il volume intende aiutare a stimolare la consapevolezza del pianismo e della pratica strumentale, attraverso la ricerca musicologica: si pensa spesso a quest’ultima come a un esercizio intellettuale, ma ritengo che essa implichi, al contempo, un importante risvolto pratico.

 

Lei è attivo anche nella ricerca artistica. Anzi, è uno dei pionieri della disciplina.

La mia attività di ricerca artistica è legata al pianoforte moderno e ai modi, nuovi, di mettere in circolazione e interpretare le informazioni che disponiamo sul passato e sulle sue pratiche strumentali. Non è un ambito semplice: come si fa a fare ricerca dentro l’interpretazione ? Possiamo considerare l’interpretazione come spazio della ricerca ? E che i risultati artistici possano essere condivisibili presso una comunità scientifica?

L’approfondimento della tecnica pianistica è uno spazio di indagine fra tanti altri, nella storia della musica. Ciò non deve comportare, però, una sorta di anelito verso un mero ritorno al passato. Mi interessano le esecuzioni storicamente informate: mi incuriosiscono sempre e spesso le apprezzo. È sicuramente utile e lodevole suonare con coscienza storica su strumenti d’epoca; tuttavia, non è il focus principale della mia ricerca.

Mi sembra che, in generale, la ricerca artistica possa ancora trovare una sua strada ulteriormente definita: ci si chiede, spesso, quali siano le sue direzioni attuali, come stiano evolvendo gli studi dottorali in questo campo, attivi già in diversi conservatori d’Europa. I contesti non sono però omogenei, in tal senso. I conservatori che fanno parte di università, per esempio, hanno uno statuto particolare, come succede spesso in America Latina: per il loro specifico partenariato con l’istituzione accademica, essi propongono quasi naturalmente il dottorato, dopo la laurea magistrale. Non sempre si assiste allo stesso iter, quando, invece, il conservatorio è un’istituzione autonoma. Ma anche in ambito universitario assistiamo a indirizzi molto diversi: l’interpretazione musicale, in sede di dottorato, è spesso pensata come oggetto di studio musicologico più che un campo in cui l’esecuzione stessa è ricerca. Senza dimenticare il caso dei dottorati professionali, come quelli molto comuni negli Stati Uniti, che sono sì, molto esigenti, ma lontanissimi dall’idea di una ricerca artistica.

 

Cosa individua rispetto all’evoluzione della ricerca artistica, in Italia?

Il momento non è troppo dissimile, a mio avviso, da ciò che accade nel resto d’Europa. La voglia di fare appare presente, importante e puntuale in certi contesti, anche se non riscontrabile dappertutto. Inoltre, i possibili orientamenti scientifici non appaiono del tutto definiti. Tale mancanza d’omogeneità di intenti è un fenomeno europeo che si riscontra, spesso, quando si partecipa ai dibattiti dell’Association Européenne des Conservatoires, e in particolare dell’European Platform for Artistic Research in Music: in questi ambiti, si comprende come la riflessione stia ancora cercando un suo centro.

Globalmente, se in alcune zone il dibattito sulla ricerca artistica è già avviato da tempo, in altre esso cerca ancora le sue basi. Comunque, credo che l’educazione musicale superiore, in Europa, stia vivendo un momento appassionante; e personalmente, vedo con gioia la progressiva apertura dei conservatori alla ricerca, al dottorato, come senso ultimo della tradizione universitaria: un ciclo inteso non solo come anticamera dell’esercizio di professioni accademiche, ma anche come spazio puro di conoscenza e di approfondimento. La ricerca può rappresentare in sé un punto d’arrivo e permette di aggiungere, infinitamente, sfumature di senso ai propri studi.

 

La ricerca artistica può essere dunque foriera di modi nuovi di pensare la formazione musicale superiore.

Per la musica e le prassi esecutive, si tratta di una sfida enorme. È un percorso diverso rispetto al perfezionamento delle proprie competenze tecnico-interpretative: durante un dottorato, ci si specializza in maniera estrema, attraverso un accesso alla conoscenza che giustifica la presenza di una tesi, la quale deve essere necessariamente innovativa. Nella musica classica, paradossalmente, l’innovazione deve essere prioritaria; non bisogna sfidare la tradizione, ma neanche venerarla. L’autorità del compositore, per esempio, seppur ben riconosciuta, non è un canone intoccabile; la ricerca aiuta a evitare il rischio che le interpretazioni siano eccessivamente simili, e fa sì che ci sia ancora margine per la sperimentazione. La musica antica, d’altronde, lo dimostra. Chiaramente, non possiamo salutare e accogliere qualunque cosa senza criterio solo perché “nuova”, ma la ricerca universitaria aiuta a indicare modi solidi di dialogare e trovare le giuste prospettive, per capire cosa si vuole realizzare e verso dove ci si sta orientando.

Le giovani generazioni di studenti sentono chiaramente che c’è bisogno di un rinnovamento e sono sicuro che la ricerca dottorale nei conservatori prenderà uno spazio sempre più importante, fino a diventare un punto di riferimento.

 

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