Crisi della cultura e responsabilità della politica: il coraggio della competenza. Intervista a Giorgio Battistelli

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di Salvatore Sclafani

Alla vigilia di un imminente confronto fra i quadri delle diverse istituzioni artistiche in Toscana, Giorgio Battistelli, direttore artistico del Festival Puccini di Torre del Lago (e a partire da settembre 2021, anche dell’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento), mette in luce venature e atteggiamenti che distinguono il mondo musicale del nostro tempo. TGmusic.it ha voluto dare voce alla sua riflessione sul ruolo etico del musicista oggi, al suo appello alle politiche culturali ad agire con competenza e consapevolezza delle realtà locali, e al suo invito, rivolto alle numerose orchestre della Toscana, alla costituzione di un “arcipelago della musica” nella regione.

 

Maestro Battistelli, quali direzioni predominanti percepisce attualmente nel settore musicale, a quasi un anno dall’inizio della pandemia? 

Sicuramente, si manifesta con maggiore insistenza una cultura del narcisismo: la pandemia ha fatto emergere in maniera ancora più forte la pochezza dei contenuti del nostro essere musicisti, in una società spaesata. C’è una concentrazione sull’Io, predominante, che si è sostituito alla società penalizzando le dimensioni del senso etico e del senso morale del musicista.
Le proteste e le preoccupazioni cui assistiamo sembrano perlopiù legate al fatto essenzialmente pratico di non ricevere una remunerazione. Si tratta, certo, di un problema grave, ma ciò che è ancora più drammatico è che questa pandemia ci sta rendendo egoisti, sensibili solo al nostro immediato interesse, incapaci di ascoltare l’altro. Le proteste, le manifestazioni plateali si esprimono in termini concreti e quantitativi, basati sul numero degli eventi, dei concerti annullati; ma chi protesta, cosa dà realmente in cambio, oggi, a questa società? Il principio della forte mercificazione del proprio sapere sembra inglobare e massificare tutte le generazioni. Il festival che organizzerò a Bolzano nell’ottobre 2021, da direttore artistico dell’Orchestra Haydn, avrà come titolo “Quo Vadis, Orchestra?” e intende lanciare un interrogativo: verso dove sta andando, oggi, il musicista? Verso l’accumulazione di concerti e il mero guadagno? Ho l’impressione che si sia smarrito il senso, la funzione del musicista in rapporto alla collettività. L’Io ha rimpiazzato la società, l’impegno politico è stato sostituito dalle pratiche di autocoscienza e dalla PNL (programmazione neurolinguistica). Vi è tutto un rimandare a una dimensione straniante rispetto alla responsabilità etica di agire dentro la propria collettività.

 

Quale può essere il ruolo della politica all’interno di tali dinamiche?

Prima di tutto, bisogna chiedersi se la politica entri in gioco con la sua presenza o, paradossalmente, con la sua assenza. La politica finanzia allo scopo di evitare i problemi; ma non li risolve, né li “crea”. Nel nostro Paese, essa dovrebbe esercitare una funzione proattiva, attivare delle dinamiche, agire con lungimiranza, porre degli interrogativi attraverso progetti creativi di investimento nella società.
Vorrei soffermarmi sulla politica culturale della Regione Toscana, anche in previsione dei suoi Stati Generali della Cultura annunciati dal presidente Eugenio Giani: è una regione che conosco a fondo, avendovi lavorato per diversi anni. È necessario che la politica in Toscana tenga conto della sostenibilità dei diversi progetti che vengono proposti e approvati ed è bello pensare alla Toscana come un territorio fertile per la germinazione di numerose orchestre: è un segno culturale molto forte. Tuttavia, esso deve essere supportato da una politica regionale di sostenibilità: far nascere progetti è importante, ma ancora più importante è creare i contesti per svilupparli e farli evolvere. La politica non può essere deresponsabilizzata e agire sulla base di criteri di urgenza, senza esercitare una reale lungimiranza nelle scelte. È importante che essa riesca a guarire e rigenerare il territorio, concentrandosi non solo sulla quantità delle iniziative, ma soprattutto sulla loro pertinenza rispetto alle peculiarità dei territori. Bisogna evitare a tutti i costi l’omologazione delle attività culturali. Le identità vanno salvate garantendo le specificità locali.

La Toscana è estremamente ricca di festival, iniziative e dibattiti distribuiti sul territorio all’insegna di quel decentramento culturale, un concetto politico molto in voga negli anni Settanta, applicato con largo anticipo rispetto ad altre regioni italiane. E in modo capillare. Allo stesso tempo, quest’attività diffusa sul territorio non può essere replicante: al contrario, deve tenere conto dei diversi contesti della regione.

 

In un territorio così fertile di iniziative culturali e musicali, è dunque una reale visione d’insieme che deve ancora essere sviluppata e declinata, poi, in modo specifico in relazione alle realtà locali?

Per evitare l’omologazione diffusa delle iniziative musicali e culturali, sarebbe opportuno condurre politiche consapevoli delle identità, delle peculiarità e delle sfumature delle proposte. Ritengo sia questo il lavoro politico che la Regione deve indirizzare e potenziare. Facendo anche delle scelte di qualità: penso al Maggio Musicale Fiorentino, senza dubbio il cuore pulsante della musica in Toscana; ma oltre al cuore, l’organismo-Regione funziona grazie all’azione degli altri organi, che devono essere ugualmente potenziati, con competenza.
Sono felice di veder nascere diverse orchestre in Toscana e il mio sogno è quello di creare un vero e proprio arcipelago toscano della musica, in cui le orchestre siano isole non isolate capaci di comunicare reciprocamente, mantenendo la loro identità. Le numerose realtà toscane devono avere un significato all’interno del territorio regionale e nazionale: la loro ragion d’essere deve risiedere su basi solide, non ascrivibili a quella che io definisco “politica del cerotto”. Bisogna essere onesti intellettualmente quando si valuta l’operato delle attività culturali e musicali locali: i parametri adottati non possono cedere al ricatto di questioni demagogiche legate alla salvaguardia delle maestranze, dei lavoratori e delle loro famiglie. Ciò rischia di costituire un circolo vizioso dal quale la politica non può svincolarsi senza il coraggio di agire con competenza sulla gestione delle istituzioni. Vorrei utilizzare una metafora: se una fabbrica rischia di fallire perché produce del latte di cattiva qualità, essa non deve essere tenuta comunque in vita esclusivamente per evitare che i lavoratori perdano il proprio impiego. Basterebbe semplicemente agire sulla qualità di lavorazione del latte e non continuare a produrre del latte acido, temendo di mettere in cassa integrazione gli operai. È giusto quindi che i mestieri dello spettacolo siano protetti, ma è fondamentale che le proposte abbiano qualità e siano frutto di politiche lungimiranti e competenti.

 

In cosa consisterebbe, allora, il “coraggio” della politica?

Oggi, la politica può dirsi coraggiosa quando sa dire di no con consapevolezza o quando propone un sì con discernimento. Il sì della politica, in particolare, deve implicare un conseguente accompagnamento dei progetti approvati in vista di una loro crescita. Non può esistere una pianificazione efficace con il mero accontentamento, i fondi non devono essere concessi al semplice scopo di evitare i contrasti. Prima di agire, la politica locale deve analizzare a fondo le dinamiche interne: i finanziamenti devono essere frutto di scelte competenti e visionarie, capaci di far crescere quelle attività che davvero presentano un potenziale sul territorio. La pandemia attuale offre agli artisti, alle organizzazioni e alle politiche della cultura l’opportunità di reinventare delle modalità di gestione e fruizione dello spettacolo. Ma tale trasformazione deve essere accompagnata da un cambio di mentalità. Adesso, la politica sembra non avere il coraggio di fare delle scelte. Le scelte sono rischiose, costose, spesso anche impopolari, ma assicurano chiarezza e consapevolezza.

In questo momento, abbiamo tempo per reinventare. Difficilmente potremo tornare allo stesso stato di cose precedente all’esplosione della pandemia: bisognerà dunque capire come realizzare il diverso e in questo, la politica dovrà avere il coraggio di aiutare ad evolvere e non a sopravvivere. Credo fermamente nel mio lavoro di organizzatore, cui do anche un valore politico: la direzione artistica è uno strumento che permette di porre delle domande, al fine di suscitare una riflessione costante sulla nostra situazione odierna, allargare i territori del pensiero e offrire al linguaggio, alla cultura e alla musica dei margini di sviluppo in Italia.

 

Il titolo del suo prossimo Festival Internazionale di Musica Contemporanea, “Quo Vadis, Orchestra?”, pone un interrogativo sugli orientamenti attuali (e futuri) dell’orchestra: a chi è rivolto esattamente?

La domanda “Quo Vadis, Orchestra?” è da intendersi a tutto tondo e si rivolge a noi musicisti nella nostra interazione con l’orchestra, che deve essere riconsiderata. Cosa rappresenta oggi l’orchestra per un compositore, un direttore d’orchestra, uno strumentista? In che modo si può scrivere ancora oggi per lo strumento-orchestra e come si può presentare un concerto per orchestra nella società attuale?  Si tratta di uno strumento amplificato, di un luogo in cui esprimersi ed esporre il passato, riprodurre l’esistente? Oppure di un mezzo per la realizzazione di nuovi sentieri culturali? E quale sarà l’evoluzione dell’orchestra nel XXI secolo? Sarà così come noi l’abbiamo conosciuta o come l’hanno vissuta i grandi del passato? Nel tempo, il ruolo e la percezione dell’orchestra nella società sono cambiati enormemente. Oggi, la sua dimensione burocratica non è trascurabile e l’apparato sindacale riveste un ruolo importante nella sua organizzazione interna: i professori d’orchestra si riconoscono in questa nuova collettività o sono, piuttosto, smarriti a causa dell’assenza di politiche lungimiranti? Chi dirige queste istituzioni deve saper esprimere visioni a lungo termine. Attualmente, i teatri e le orchestre si muovono, spesso, senza orizzonti, senza creare attese se non quelle, effimere, costituite da un singolo, prestigioso concerto che si esaurisce senza ulteriore sviluppo, cedendo puntualmente il passo all’assenza sostanziale di progettualità. L’orchestra deve essere quindi perspicace nel cogliere le dinamiche del presente per meglio proiettarsi verso il futuro.

 

In che modo, oggi, la musica può stimolare una riflessione sul mondo che ci circonda? Quali sono le responsabilità dei festival e delle stagioni concertistiche, in tal senso?

Credo che le istituzioni culturali debbano occuparsi non soltanto della produzione di eventi-manufatti, ma anche di quella di pensieri. È una dimensione, questa, sempre più assente dalle stagioni concertistiche. Orchestre, fondazioni liriche e festival non invitano più a una riflessione, ma si limitano a organizzare spettacoli che non esprimono un vero pensiero o discorso logico. Proporre e produrre cultura significa provocare inquietudine, turbolenze, perturbazioni. Non bisogna dar luogo soltanto a un’azione consolatoria d’intrattenimento, ma suscitare anche un interrogativo, un invito al non-conosciuto.
Analizzo la società e mi rendo conto di come la musica sia ormai mercificata e oggetto di consumo. Anche Pasolini, a suo tempo, aveva già riscontrato in Italia un rischio di omologazione culturale: adesso noi lo stiamo vivendo nel settore musicale, con una diffusa omogeneizzazione delle programmazioni delle orchestre, dei teatri e delle fondazioni. Quest’uniformarsi delle proposte culturali spegne la curiosità o non la alimenta. L’uomo di oggi è intrappolato; incatenato dal presente, non ha orizzonte davanti a sé ed è incapace di creare una visione. Un’orchestra deve invece proiettarsi nel futuro a partire dal presente, disincagliandosi da esso.
Le figure del musicista, del direttore artistico, del sovrintendente, oggi, esprimono un atteggiamento fortemente narcisista, incuneato in un presente che rende indecifrabile il passato e inconcepibile il futuro. Nulla più si deposita: viviamo in una predominante cultura della cancellazione, individualista e smemorata, che ha dimenticato il passato. In un’eccesiva democratizzazione dei valori, il bello e il brutto si cancellano ormai reciprocamente. Non esiste più discernimento e tutto viene accettato in nome di una democratizzazione estrema. Abbiamo bisogno di analizzare quello che accade, dobbiamo liberarci dall’incatenamento del narcisismo e uscire dal disorientamento del nostro tempo, provocato dall’accumulo eccessivo di dati e informazioni. Mi vengono in mente i “passaggi” che Roland Barthes aveva messo in rilievo nella nostra cultura contemporanea: dopo la discesa dalla sapienza alla conoscenza, siamo adesso ulteriormente schiacciati dall’involuzione della conoscenza verso l’iper-informazione che si annulla in un magma indistinto. È necessario ripensare una politica culturale lungimirante, giusta e condivisa, davvero profonda e non superficiale, che abbia a cuore gli interessi comuni e non soltanto il proprio individuale tornaconto.
Quello che succede intorno al mondo della musica è tragico ed è una problematica transgenerazionale. Quando pensiamo agli effetti della pandemia, siamo drammaticamente colpiti dalle morti, ma abbiamo sottovalutato o non dato sufficiente rilievo alla sfera delle ripercussioni psicologiche. Siamo come degli “psiconauti” senza direzione e viaggiamo con dei turbamenti profondi nella psiche. Spesso diamo maggiore rilievo alle ferite della carne; tuttavia, anche le sofferenze della psiche rischiano di essere gravi, specie se non risultano immediatamente visibili.

 

Quali prospettive intravede per i giovani musicisti? Le emergenze attuali sono rappresentate dalle questioni sanitarie ed economiche e la musica rappresenta una sorta di cenerentola.

Oggi, le prospettive di un giovane musicista sono le stesse di un musicista adulto o di mezz’età: esse si scontrano con difficoltà identiche, di fronte a politiche prive di senso e strategia. Una politica culturale seria dovrebbe esprimere sostenibilità e proiezione verso il futuro, invece di perdersi in un susseguirsi di iniziative e finanziamenti senza progettualità. Dare opportunità ai giovani è doveroso e necessario, ma bisogna evitare che il “giovane” diventi un’etichetta; anche le altre generazioni hanno diritto a delle occasioni. Nel 2006, durante la mia esperienza di direttore artistico del Festival Internazionale della Musica Contemporanea della Biennale di Venezia, diedi il Leone d’oro a un compositore non più giovane come Friedrich Cerha (aveva ottant’anni, all’epoca). Questo riconoscimento e una mia commissione di un lavoro per orchestra riattivarono la sua creatività, da molti creduta ormai sopita. La creatività, dunque, non è generazionale: il musicista è infinitamente perfettibile. È limitativo e demagogico da parte della politica insistere eccessivamente sull’aiuto da dare ai giovani, alle donne, alle periferie: si tratta di formule che non producono nulla, se non soluzioni temporanee.

 

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