Dietro le quinte della musica. Intervista a Valentina Bensi.

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di Maria Musti

La triestina Valentina Bensi è un esempio di altissima professionalità musicale a tutto campo: dopo gli studi pianistici in Conservatorio ha affiancato alla carriera concertistica l’approfondimento universitario, laureandosi in Lettere e in Musicologia, e proseguendo il suo percorso con un master internazionale in Management dei Beni culturali a Parigi e un dottorato di ricerca in Musicologia a Monaco di Baviera. Si occupa di management musicale, ricerca musicologica ed è produttrice musicale della RSI [Radiotelevisione Svizzera di lingua Italiana, ndr], dove è anche conduttrice e intervistatrice. L’abbiamo incontrata a Cremona Musica Exhibitions and Festival poco dopo la pubblicazione di The Italian-American Musical Experience. A journey from Busoni to Berio, corposo saggio in inglese edito da LIM. Il volume ricostruisce le esperienze di otto compositori italiani emigrati negli Stati Uniti, alla conquista di fama e fortuna – Ferruccio Busoni, Rosario Scalero, Alfredo Casella, Mario Castelnuovo-Tedesco, Luigi Dallapiccola, Gian Carlo Menotti, Nino Rota e Luciano Berio – e le loro interazioni con l’America del loro tempo, la sua musica e i suoi musicisti.

 

Cosa l’ha spinta a interessarsi al rapporto tra Italia e Stati Uniti attraverso i viaggi dei compositori italiani?

Mi ha sempre affascinato questo percorso di emigrazione, anche per ragioni personali: lo zio di mia madre emigrò subito dopo la guerra, negli anni Cinquanta. È una parte della nostra storia familiare. Ma pensiamo anche a tutti gli artisti americani di origine italiana: Frank Sinatra, Lady Gaga, Madonna… Un altro input mi venne dall’ascolto, alla Fondazione Cini di Venezia, di una conferenza sulle Lezioni americane di Luciano Berio, da lui tenute alla Harvard University tra il 1993 e il 1994. Sono di una profondità culturale incredibile.

 

Uscirà anche la traduzione italiana?

Non so; io l’ho pensato in inglese, perché desidero che questo percorso dei compositori italiani venga conosciuto in America, dove la loro storia è meno nota. Invece qui c’è già molto materiale bibliografico a disposizione.

 

Si tratta di un volume corposo…

Frutto di un lungo periodo di ricerche: ho consultato i giornali e le critiche dell’epoca, ho fatto un approfondito lavoro di archivio alla Fondazione Cini di Venezia per Casella, Rota e Castelnuovo Tedesco, poi sono andata a New York alla Juillard per il fondo Berio, alla Mannes School of Music per Scalero, alla Columbia Library, al Curtis Institute di Philadelphia…

 

Come riassumerebbe, alla luce dei risultati della sua ricerca, la relazione tra i due paesi?

Lo definirei un rapporto di fraternità: io stessa sono sempre stata accolta molto positivamente. C’è una sorta di benevolenza degli americani nei nostri confronti, e viceversa, molto più che con altre realtà europee.

 

Ha qualche aneddoto in proposito da raccontarci?

Un episodio simpatico che riguarda Giancarlo Menotti e Igor Stravinskij: si incontrarono a cena dopo un concerto, e cominciarono a parlare. Il russo disse che amava molto l’opera italiana, ma non quella moderna. Trascorsero molto tempo a scambiarsi opinioni e alla fine Stravinskij disse: «Recentemente però ho sentito un compositore italiano che non è niente male. Si chiama Giacomo Puccini, lo conosce?»

 

Ha studiato management artistico. Qualche spunto che aiuti a svecchiare il mondo della musica classica?

Credo sia oggi importante guardare alla musica anche dalla prospettiva del marketing, ovvero considerando il tipo di pubblico che partecipa a un evento musicale e le sue esigenze. Studenti di Conservatorio, professionisti tra i 40 e i 60 anni e over 60 hanno aspettative ed esigenze diverse, e bisogna tenerne conto e cercare di conciliarle, se frequentano le stesse stagioni concertistiche. Molto utili, in questo senso, sono le prolusioni introduttive. Io stessa mi ci sono cimentata da giovanissima, appena diplomata, alla Società dei Concerti di Trieste. Era un progetto inedito, che piacque tantissimo: nella saletta in cui si tenevano le presentazioni c’erano sempre 80-90 persone. Sono per la separazione delle competenze: i musicisti potrebbero introdurre i loro concerti, ovviamente, ma sono concentrati sulla loro performance, e non penso che sia il caso che parlino prima di esibirsi. Anche una superstar del concertismo come Martha Argerich ha sempre l’ansia da palcoscenico, nonostante il suo livello elevatissimo e i tanti anni di esperienza sul palco: l’adrenalina ti rimane, e ti serve per suonare.

 

Pensando a un pianista, la prima immagine che viene alla mente è proprio quella di un artista “solo” sul palcoscenico.

La percezione che il pubblico ha di te è diversa da quella che tu hai di te stesso. Capita anche a me, con le mie interviste. Tutti coloro che fanno parte di questo mondo hanno un grande background di insicurezze, è proprio la professione che porta a guardare sé stessi in modo critico. D’altra parte, se così non fosse, mancherebbe la spinta al miglioramento continuo, necessaria per andare avanti in questo campo sempre in divenire. Sono i due lati della medaglia, che bisogna far convivere.

 

A proposito di Martha Argerich, che lei ha avuto modo di conoscere di persona: com’è al di fuori del palcoscenico?

Meravigliosa, una delle persone più generose del mondo, sempre pronta ad aiutare gli altri. Per 15 anni, dal 2001 al 2016, ha animato il festival che porta il suo nome, dedicato alla musica da camera. Si teneva da noi, alla RSI di Lugano, con la direzione di Carlo Piccardi, che era il nostro responsabile della parte musicale per la radio tv. Al suo interno si trovavano progetti incredibili: concerti lunghissimi come quelli dell’epoca di Liszt, in cui lei suonava con suoi amici. I pianisti erano moltissimi, la media era di 70 a edizione. Invadevano la città, non si sapeva più dove farli studiare, ma fu un periodo bellissimo. Purtroppo, il festival è terminato nel 2016. Sono particolarmente felice di aver contribuito all’organizzazione dell’ultimo concerto, che vide insieme lei e Cecilia Bartoli. Memorabile.

 

In cosa consiste il suo lavoro di produttrice musicale alla RSI?

Mi occupo di interviste, produzioni discografiche, registrazione di concerti trasmessi in diretta, oppure offerti al circuito Euroradio. Rappresento la Svizzera nel gruppo che riunisce tutte le emittenti radiotelevisive europee, e sono stata nominata componente del Classical music group, un sottogruppo della EBU [European Broadcasting Union, ndr].

 

Lei ha alle spalle anche una notevole attività concertistica e una solidissima preparazione strumentale. Cosa l’ha portata ad allontanarsi dal pianoforte, preferendo la ricerca musicologica?

Da bambina ho partecipato a numerosi concorsi di esecuzione pianistica, e già mi rendevo conto di chi, tra noi concorrenti, aveva quel quid necessario per fare carriera. La vita mi mise davanti a un bivio quando avevo 11 anni: Riccardo Risaliti mi propose di entrare all’Accademia di Imola. Io sono di Trieste, e Imola non è proprio dietro l’angolo. Sarebbe stato un sacrificio notevolissimo per tutta la mia famiglia, perché essendo così piccola qualcuno avrebbe dovuto accompagnarmi. Inoltre, ai miei genitori dispiaceva il fatto che non avrei potuto frequentare la scuola normalmente, medie, liceo… Quindi rinunciammo a questo progetto, e mi limitai a frequentare il Conservatorio. Poi mi sono perfezionata studiando al Mozarteum di Salisburgo e alla Scuola Superiore Internazionale del Trio di Trieste. Per dedicarsi alla vita da concertista servono una dedizione e una spinta che non credo fossero nelle mie corde: ero molto timida, e invece è necessaria quella sfrontatezza che ti fa salire sul palco e dire “adesso guardatemi”.

 

Serve coraggio per stare sotto i riflettori, ma anche per riconoscere e seguire le proprie attitudini.

Mi ha sempre affascinato di più il “dietro le quinte”. Sono contenta del mio percorso: durante gli anni di studio in Conservatorio ho capito quale fosse il ventaglio di possibilità lavorative che si apre allo studente di musica, e cosa serve per ognuna di esse; quindi ho scelto l’iter formativo più giusto per quel che volevo fare. E tuttora non mi sento certo “arrivata”: ho lavorato in Germania come project manager, ora vivo in Svizzera e lavoro per la RSI, ma contemporaneamente sto facendo molta attività di ricerca. Sono tutti aspetti del fare musica che convivono e si intrecciano: in questo campo più studi, più ti rendi conto di quanto c’è ancora da studiare. Non solo: bisogna anche adeguare la propria figura professionale alle nuove richieste del mercato musicale. Oggi un artista deve essere imprenditore di sé stesso, ed è una cosa difficilissima.

 

Non è affatto scontato sapersi dividere tra studio dello strumento e auto promozione…

Occorre investirci molto tempo e impegno. È un lavoro parallelo che non consiglio: io l’ho fatto e a un certo punto ho scelto, optando serenamente per il backstage. Penso che sia necessario avere chiaro cosa si vuol fare: il musicista, o altro? Il rischio, altrimenti, è vedere il proprio tempo fagocitato da infiniti impegni: dal budget management ai social media… Un mondo complesso e sconfinato, che tuttavia non cessa mai di stupirmi e affascinarmi!

 

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