Impeto dionisiaco, perfezione apollinea e volontà eroica nel Concerto n. 5 per pianoforte e orchestra op. 73 di Ludwig van Beethoven.

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di Smeralda Nunnari

«Il vero artista non ha nessuna superbia: purtroppo egli vede che l’arte non ha confini. Oscuramente sente quanto egli sia lungi dalla mèta, e forse, mentre è ammirato dagli altri, in se stesso si corruccia di non essere ancora giunto là dove il suo genio migliore gli splende innanzi come un sole, lontano.»

 

Il concerto per pianoforte e orchestra op. 73, quinto tra quelli per pianoforte e orchestra di Ludwig van Beethoven, viene composto nella primavera del 1809 a Vienna e dedicato all’arciduca Rodolfo Giovanni d’Asburgo-Lorena, musicista che, già, vanta la dedica del precedente quarto concerto op. 58, da parte del maestro.

Il titolo di Imperatore che, ormai, accompagna la composizione è dovuto a un’assegnazione arbitraria da parte del pianista, editore e compositore Johann Baptist Cramer. Tale epiteto non può essere riferito a Napoleone Bonaparte, a cui vene dedicata, invece, la Terza Sinfonia, detta Eroica del 1804, quando il nostro compositore come Hegel vede nel generale corso <<cavalcare lo spirito del mondo>>. Ma appresa la notizia della sua autoincoronazione a imperatore dei francesi, nei primi dell’Ottocento, straccia questa dedica esclamando: <<Anch’egli non è altro che un uomo comune. Ora calpesterà tutti i diritti dell’uomo e asseconderà solo la sua ambizione; si collocherà più in alto di tutti gli altri, diventerà un tiranno!>>. E trova un nuovo dedicatario nel principe Joseph Franz Maximilian Lobkowitz, appassionato di musica e buon violinista dilettante.

È possibile che l’invasione francese di Vienna, contemporanea alla composizione del concerto, abbia contribuito alla fortuna del sottotitolo. Ma è certo che Beethoven non nutriva, ormai, nessuna simpatia nei confronti di Napoleone, considerato, invece, all’epoca dell’Eroica paladino degli ideali rivoluzionari <<Liberté, Egalité, Fraternité>>.

Tra drammatici avvenimenti esterni mentre le armate di Napoleone marciano su Vienna assediandola e bombardandola, Beethoven rimasto nella città abbandonata dalla corte e dall’aristocrazia, trova riparo nella cantina dell’abitazione del fratello Karl e presso un amico, il poeta Ignaz Franz Castelli. Egli stesso, il 26 luglio, in una lettera agli editori Breitkopf e Härte, scrive: «Intorno a me è tutto un tumulto caotico, null’altro che tamburi, cannoni e umane sventure di ogni tipo». Trascorsi, poi, agosto e settembre, a Baden, a ottobre rientra a Vienna, nell’appartamento della Walfischgasse, dove nel disordine di quei mesi abbozza e stende il Quinto Concerto.

La grandiosità di questo ultimo concerto per pianoforte e orchestra in Mi bemolle maggiore, dalla tonalità eroica continua nel clima del Quarto Concerto, con la redenzione ornamentale poetica tra scale, arpeggi, trilli e una sonorità da glockenspiel, ricercata nel registro acuto del pianoforte. Il tema principale dell’Allegro, primo dei tre movimenti che strutturano l’opera, attraverso l’orchestra si manifesta in tutta la sua imponente muscolatura, ma assegnato al pianoforte, risulta ogni volta variato e addolcito. Nello sviluppo dinamico, il conflitto tra orchestra e solo, a momenti, è evidentissimo. Alla fine del movimento, un’annotazione dell’autore abolisce la cadenza iniziale di carattere virtuosistico, assunta lungo tutto il brano come elemento portante. Nel secondo movimento, i due temi, esposti rispettivamente dagli archi e dal pianoforte, nell’Adagio un poco mosso, contribuiscono a creare la compostezza di un sublime corale. Una breve e intensa meditazione, dove la sordina degli archi conferisce raccoglimento. Il collegamento al Rondò del terzo movimento avviene con una modulazione improvvisa, tramite una discesa cromatica. Nel tema principale è presente un’emiolia che dona un finale scintillante e gioioso. Alla continua proposizione del tema, da parte del pianoforte, con accenti delicati, si sussegue imperiosa la risposta dell’orchestra. Il dialogo tra pianoforte e orchestra diventa sempre più incalzante fino alla breve cadenza finale, a cui segue la coda da parte dell’orchestra che chiude il concerto con un effetto trascinante.

Se nell’impianto in Mi bemolle maggiore di tale composizione, stessa tonalità della Terza sinfonia, è evidente la categoria e lo spirito dell’eroismo, nella colluttazione tra solo e tutti, tra pianoforte e orchestra si rivela tutto l’impeto dello spirito dionisiaco e la ricerca della perfezione, della bellezza apollinea. È indubbio, inoltre, che ci troviamo difronte a pagine compositive grandiose e poeticamente magniloquenti. Una perfezione di scrittura con una plasticità apollinea di linee, che non trova altri termini di riferimento nella letteratura per pianoforte e orchestra.

Il concerto viene eseguito per la prima volta, privatamente, a Lipsia, il 28 novembre 1811, da Friedrich Schneìder e, in pubblico, a Vienna il 15 febbraio 1812, da Cali Czerny. Dopo una mole di straordinari capolavori, quest’opera sancisce ufficialmente la sua posizione di musicista unanimemente riconosciuto geniale. Il tragico e sofferto titanismo della gioventù trova sublimazione in un’architettura sonora olimpicamente solenne, improntata al sentimento dionisiaco della gioia. In futuro, tale carattere trova la propria trasfigurazione in creazioni musicali superiori e di estrema trascendenza.

 

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