“La puerta del Vino”: un pittoresco scenario, un affascinante preludio di Claude Debussy, sui cui pentagrammi sgorgano versi divini.

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di Smeralda Nunnari

«La musica è precisamente l’arte che si avvicina di più alla natura, quella che le tende la trappola più sottile. Malgrado le loro pretese da traduttori giurati, i pittori e gli scultori non possono darci della bellezza dell’universo che un’interpretazione abbastanza libera e spesso frammentaria. Essi si appropriano e fissano uno solo di questi aspetti, uno solo dei suoi istanti: solo i musicisti hanno il privilegio di captare tutta la poesia della notte e del giorno, della terra e del cielo, di ricostruirne l’atmosfera e ritmarne l’immensa palpitazione.» (C. Debussy, Monsieur Croche et autres écrits, 1987, p. 246)

 

La Porta del Vino occupa il terzo posto nel secondo dei due Livres de Préludes, che insieme raccolgono i ventiquattro Préludes per pianoforte di Debussy. Il secondo libro, rispetto al primo, composto in pochi mesi, tra il dicembre del 1909 e il febbraio del 1910, ha una elaborazione più lunga, protrattasi dal 1911 fino al 1913, perché più complesso. I dodici brani che lo costituiscono sono scritti, per lo più, su tre pentagrammi, anziché due, per rilevare la ripartizione delle voci nei diversi registri.

I Preludi nel pensiero pianistico del compositore francese, frequentatore di circoli letterari e artistici, rappresentano l’apex. Un geniale capolavoro dal linguaggio musicale intensamente evocativo, allusivo e simbolico, fatto di prelibati e amabili versi divini. Nell’affascinante varietà dei colori, ogni pezzo diviene per l’ascoltatore un quadro, un dipinto da ammirare e rimirare, come in una meravigliosa galleria d’arte.

Preludio è un termine musicale antico, che ha avuto diversi significati, nel corso della sua storia. Già, nel titolo dell’opera è evidente il riferimento ai ventiquattro Preludi di Fryderyk Chopin, ispiratosi a sua volta ai quarantotto de Il Clavicemabalo ben temperato di Johann Sebastian Bach, ma l’artista francese, nell’adottare anch’egli la forma del Preludio, non ha certo ricalcato nessuna delle orme precedenti, bensì ne ha assunto il termine con maggiore libertà formale e originalità stilistica, mediante tutti i caratteri propri della sua personalità musicale. Ogni contenuto, ogni tema scelto riflette i suoi sentimenti, i suoi stati d’animo, provati difronte alle proprie argomentazioni musicali. Nella equilibrata e perfetta estensione dei suoi brani, insieme al perfetto controllo di ogni emozione, l’autore rende omaggio all’affermazione shakesperiana: <<la brevità è l’anima della saggezza>>, attraverso tale musica. Il titolo, posto solo alla fine di ogni Preludio, tra parentesi e preceduto da puntini di sospensione, risulta sfumato ed allusivo, rispetto all’oggetto o al tema di riferimento, ne valorizza la preziosità di ogni singolo pezzo, costituendo, anche, un ornamento letterario.

Una cartolina di saluti, raffigurante la Porta del Vino di Granada con la piazza antistante, spedita da Manuel De Falla, diventa l’input di tale composizione. I violenti contrasti di colore tra luci e ombre, creati dal sole infuocato dell’Andalusia, nel suggestivo scenario, portano l’artista ad esclamare: «Ne farò qualcosa!».

Così, nasce questo terzo Preludio al tempo di habanera, preceduto da un’indicazione che riflette l’indole spagnola: «avec de brusques oppositions d’extrême violence et de passionnée douceur» («con dei bruschi contrasti di estrema violenza e di dolcezza appassionata»). L’ambientazione spagnola ci riporta a La sérénade interrompue, nono preludio del Prémier Livre e a La soirée dans Grenade, delle Estampes, dove il compositore riesce a ricreare affascinanti suggestioni, assolutamente indirette, perché mai viste, ma sentite, verso un paese esotico, mitico, sognato e desiderato, con assoluta aderenza alla realtà, grazie alla propria prerogativa di grande musicista.

Non vi è alcun riferimento storico, circa l’origine araba del palazzo-fortezza dell’Alhambra di Granada, fastosa residenza di principi musulmani. Egli non ci intrattiene sulle sue mura o altre porte, ma soltanto su quella del Vino. All’artista interessa ciò che accade nella piazza antistante a questa porta, varcarla, oltrepassarla, per trasportarci e farci abbracciare dall’affascinante spettacolo di una tumultuosa vita, nello sfolgorio del suo sole abbagliante. Una vita che si svolge quotidianamente nella tipica città dell’Andalusia, con prorompente vitalità tra le grida dei venditori, gli schiamazzi dei ragazzi che giocano, il canto di un ubriaco, al ritmo di flamenco.

Nel brano in Re bemolle minore, l’evocazione della Spagna moresca è data dal persistente ritmo percussivo di habanera, al basso e con una melodia ritmicamente varia e densa di fioriture vocalistiche, caratterizzanti il cante jondo andaluso. Per immergerci nel clima, il compositore sceglie, quindi, la danza sensuale e voluttuosa di una ragazza andalusa, che sembra accompagnata da battiti di mani e consensi corali. Il preludio, nel suo avanzare, da aspro, diventa molto espressivo, ruvido, appassionato, ironico e grazioso. Con un passaggio di tonalità dal re bemolle al si bemolle, caratteristico dell’habanera che unitamente al violento fortissimo dell’ultima riga, costituisce l’apex di quei violenti contrasti prescritti nell’indicazione iniziale.

Debussy, spirito tormentato, solitario, taciturno, così lo definiscono i vari biografi, si oppone a qualsiasi tipo di catalogazione o codificazione e alla ristretta definizione di impressionista. In una lettera al suo editore Jacques Durand precisa: <<Sto cercando di fare ‘qualcosa di diverso’ – in qualche modo, delle realtà – ciò che gli imbecilli chiamano ‘impressionismo’, termine questo impiegato malissimo, soprattutto dai critici d’arte>>. I suoi gusti, però profondamente conosciuti dai suoi intimi, vengono rivelati dal suo primo biografo Louis Laloy, fin dal 1909, in quest’affermazione: «le più proficue lezioni non gli sono venute dai musicisti, ma dai poeti e dai pittori». E, talvolta, la sua profonda esigenza di tranquillità e solitudine, tale bisogno di ascoltare la voce interiore della sua anima, trova delle evasioni mostrando, con humour raffinato, quell’arguzia sottile che lo conduce verso il paradosso, rilevandone una sua seconda natura. Come accade durante un soggiorno romano, quando il compositore esclama: «Ne ho abbastanza della musica, di questo stesso eterno paesaggio, voglio vedere qualche Manet e ascoltare dell’Offenbach!».

 

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