L’epoca della simulazione del sapere. La riforma dello spettacolo secondo Battistelli.

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di Stefano Teani

Giorgio Battistelli, noto luminare della composizione italiana e internazionale, già Leone d’oro alla carriera per la Biennale Musica 2022 e direttore artistico di prestigiose realtà musicali (dall’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento al Festival Puccini di Torre del Lago), nonché Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana, scioglie ogni riserva e denuncia le gravi colpe dell’attività culturale italiana, indicando al contempo una nuova direzione.

 

Alla luce dei cambiamenti sociali apportati dalla pandemia, in particolare la tendenza a preferire il mondo digitale a quello reale, come vede il futuro dello spettacolo?

A causa della pandemia c’è stato uno spostamento verso una dimensione più tecnologica, questo ha provocato un allontanamento sia dalla dimensione umana – dei rapporti interpersonali – sia dalle produzioni artistiche. Non si riesce più a vivere la distanza (psicologica, non solo fisica) come elemento positivo ma  solo come qualcosa di intollerabile. Abbiamo vissuto un’accelerazione verso il mondo della téchne, come se ci fosse un condizionamento fortissimo della produttività e della dimensione creativa, che è stata penalizzata da quella tecnologica, in nome di una velocità di comunicazione. Questo è spiazzante e ha portato a un abbassamento vertiginoso del contenuto proposto.

 

Si parla molto di “codice dello spettacolo”, quello che dovrebbe diventare un unico testo normativo atto a semplificare le procedure amministrative e a incentivare la produzione, l’innovazione e la fruizione degli eventi culturali. Cosa ne pensa?

La grande assente nel mondo musicale italiano è la dimensione etica. Non possiamo parlare di codice dello spettacolo se prima non siamo capaci di tratteggiarne una morale, di comportamento del mondo della musica. Questa mancanza si fa sentire soprattutto nelle nuove generazioni, perché oggi non esistono più i rapporti se non in una dimensione numerica, divisa tra il “fare” e “ non fare”, senza trovare il tempo per il “come”. Per esempio, quali sono i modelli di produzione musicale in Italia? Sono fatti in maniera tale da vedere una crescita organica del panorama nazionale o guardano soltanto alla politica locale del proprio territorio? Penso che stiamo attraversando una fase di perdita del centro di riferimento, con uno sgretolamento di elementi di cui si deve tenere conto. Questo porta con sé una certa superficialità. Citando Pasolini, nel centenario della sua nascita, «indegnità, disprezzo verso i cittadini», questo anima chi ha il potere organizzativo nella musica. Le osservazioni critiche che lui faceva sono quanto mai pertinenti, quando parla di “manipolazione del denaro pubblico”, “intrallazzo”… L’ambiente italiano della musica ha bisogno di una purificazione, deve partire da basi e relazioni morali nuove, altrimenti viviamo in una cultura del narcisismo e del piagnisteo.

 

Quali sono le maggiori difficoltà che ha trovato nella sua grande esperienza alla guida di vari festival?

In Italia non esiste un modello di gestione ma solo una cultura della continua richiesta: verso il Ministero, le amministrazioni regionali, provinciali e così via. Si chiedono soldi in nome di una retorica che, spesso, non ha alcuna aderenza col territorio. Esistono già molti festival, non c’è bisogno di questa proliferazione continua di nuove realtà, al contrario andrebbero potenziate quelle già esistenti. Spesso, purtroppo, servono più ai gestori stessi che agli artisti che vengono invitati o al pubblico. Senza tener conto che se non c’è un collante fra ciò che si produce e il territorio si va incontro a una totale indifferenza, se non addirittura a un rifiuto. Il festival è la manifestazione di una lettura ed elaborazione dei caratteri di un luogo che l’interprete va a riproporre nel contesto socio-culturale in cui è presente. Questo è il suo ruolo centrale, altrimenti è un corpo estraneo che non lascia traccia o viene addirittura rigettato, assumendo nella migliore delle ipotesi una mera funzione di intrattenimento.

 

Un compito particolarmente importante in questo momento post-pandemico, in cui il futuro appare quanto mai incerto.

Dovremmo smettere di vivere l’incertezza del futuro come ansia, come qualcosa di negativo, è al contrario un elemento positivo, di forza, che consente di capire meglio come andare avanti. Anche nella fase creativa e organizzativa dell’attività culturale aiuta a mettere a fuoco la pianificazione, la direzione verso cui muovere i prossimi passi. È una riflessione molto ampia che abbraccia anche altri settori, penso alle scienze sociali e antropologiche, ai mutamenti economici del nostro tempo. Si tratta del tema del futuro che cambia, e lo fa attraverso delle incertezze. Per questa ragione noi operatori culturali dobbiamo inglobare quest’ansia della “non sicurezza”, renderla elemento creativo.

 

Come sarà lo spettacolo post-pandemia?

Sicuramente ostinarsi a riproporre forme che appartengono al passato, che hanno secoli di vita, è fallimentare. Dovremo cambiare, la stessa ritualità del concerto è legata ai salotti borghesi dell’Ottocento, è naturale che le generazioni più giovani facciano fatica a riconoscersi in questo tipo di approccio. È evidente che nell’aggiornare le modalità artistiche si debbano anche rinnovare i processi gestionali delle istituzioni: non si possono gestire gli spazi come 50 anni fa, perché il pensiero compositivo, interpretativo e organizzativo non è più lo stesso e con questo dobbiamo fare i conti.

 

Questa riflessione riguarda solo l’ambiente musicale italiano o anche quello globale?

È un problema più nostro, perché si lega a una questione antropologica, che riguarda il ruolo che la musica ha nella vita delle persone. Sono decenni che si parla della necessità di fare un vero progetto formativo della musica ma ancora, dalla scuola primaria all’università, è un’attività fortemente marginale. La conseguenza di questa perdita di centro di cui ho parlato è anche la paura di perdere la propria identità, come italiani, come autori e interpreti. Bisogna capire che l’identità non è immutabile ma si trasforma con i cambiamenti sociali che avvengono intorno a noi. Chiaramente il Covid è stato un dramma e un forte impedimento, ma è come fare punto e a capo, bisogna trovare la forza di ridisegnare i rapporti, ampliare una dinamica relazionale del fare musica.

 

Fra i vari punti indicati nel codice dello spettacolo c’è quello dell’istituzione di un registro nazionale all’interno del quale saranno inseriti tutti i lavoratori dello spettacolo anche se “non costituirà condizione per l’esercizio delle attività professionali”. Pensa che sia la direzione giusta?

Penso che sia importante stabilire nuove regole ma con la volontà di aggiornare anche le norme sindacali,  stabilendo modalità diverse di come organizzare la musica e di come evitare di ostacolarla mediante vincoli datati, impedendo così il progresso creativo di un’istituzione. Da questo punto di vista sposo una visione “olivettiana”, piuttosto che “leaderistica”. La dimensione del leader forte è anacronistica, c’è bisogno di condividere una progettualità con i lavoratori dello spettacolo. È quello che faccio laddove sono direttore artistico, anche se naturalmente è più faticoso perché non c’è l’abitudine; solo così però posso cercare di convincere il collega artista della direzione in cui dobbiamo andare per sviluppare il nostro organismo, la nostra azienda.

 

Ecco, quindi una visione in un certo senso “aziendale” della realtà artistica.

Perché no? Il futuro lo vedo anche così. Con lo Stato sempre meno presente, noi saremo costretti a basarci sulle nostre reali potenzialità organizzative e di reperimento fondi, quindi in base alla nostra effettiva capacità di proporre e alla risposta da parte del pubblico. Il Ministero non può sempre darci un “diritto di programmazione”, perché è tanto assurdo quanto quello di cittadinanza. Chi l’ha detto che tutte queste istituzioni devono programmare e lo Stato se ne deve occupare? È un meccanismo perverso che porta al collasso, paradossalmente un’idea potrebbe essere quella di chiudere tutti i finanziamenti. Che le istituzioni si reggano con quello che effettivamente producono! Spesso chi lavora all’interno di un teatro, di un’orchestra o di società di concerti non sa minimamente in che direzione stia andando. Non ha l’abitudine di occuparsene, di condividere, non perché debba mettere un veto ma per conoscerne la distanza (e ritorniamo su questo tema), i tre passi indietro del pittore per guardare il totale del quadro. Noi siamo troppo incollati a osservare il particolare e perdiamo lo sguardo totalizzante; dobbiamo imparare a vedere l’affresco, se rimaniamo vincolati all’incertezza della singola pennellata ne coglieremo solo l’imperfezione.

 

Lei quindi crede che lo Stato non debba finanziare l’attività culturale?

La democratizzazione dei gusti e della programmazione sta portando al collasso l’intero sistema: così è solo confusione. Il diritto di programmazione a tutti crea un livellamento che è ingiusto, soprattutto per chi lavora e investe, per coloro che hanno una progettualità, sia come individui che come istituzioni. Per esempio pensare di aumentare il numero delle ICO è un’operazione suicida, il fatto che un’amministrazione locale si trovi ogni anno a dover gestire un aumento delle associazioni e dei festival è folle, ma c’è la paura di impedirlo perché politicamente può essere un errore, può essere intesa come una decisione non democratica. Invece, al contrario, è democratica proprio in difesa di coloro che puntano sulla qualità e sulla professionalità vera. Viviamo nell’epoca della simulazione, si simula il sapere attraverso il numero. Non è così, il numero non garantisce la qualità o l’ottima gestione del teatro e dell’orchestra, non è l’elemento quantitativo che ne determina il valore ma il sapere dove si va. Noi brancoliamo nel buio, e il mondo politico è spaesato: ancora una volta torniamo alla perdita del centro. Anche a livello politico tutto si equivale, il bello è il brutto e il brutto è il bello, tutto viene cancellato nel momento in cui accade, non riusciamo a distinguere l’uno dall’altro. Questo avviene anche a causa di una iper-informazione che annulla le differenze.

 

Negli USA le tematiche sociali trovano largo spazio nella produzione operistica contemporanea, in Europa e in Italia questo accade molto meno. Qual è il motivo secondo lei?

Quando prima parlavo di tensione etica mi riferivo anche a questo: l’arte dell’entrare in relazione col mondo e con la società che cambia. Per esempio tutta la dimensione dell’antropocene, di come noi, con l’attività culturale, riusciamo a incunearci nel processo della natura, dunque il rapporto cultura-natura. Non porsi queste domande significa non guardare al mondo che sta cambiando.

 

Meravigliosa questa dimensione dell’antropocene, una riflessione olistica che ci connette al mondo e alla realtà mutevole. 

Nell’anno pasoliniano il mio desiderio è scuotere le coscienze addormentate, chiuse in una forma di solipsismo che non riesce ad ascoltare l’altro. Ognuno è troppo preso da sé, non è come in natura in cui ogni microorganismo aiuta nella crescita del tutto. La nostra coscienza di musicisti italiani è tendenzialmente corrotta, anche in questo si manifesta la perdita del centro. Dobbiamo capire che una società civile fondata unicamente sui diritti fallisce. Nel mondo dello spettacolo vale la stessa regola, i diritti vanno conquistati con la passione e con un progetto, una direzione. Quo vadis orchestra?

 

Foto: Lorenzo Montanelli

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