Il coraggio della musica. Intervista ad Andrej Gavrilov.

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di Stefano Teani

Pianista di fama mondiale, di origini russe ma di nazionalità tedesca, a 68 anni appena compiuti Andrej Gavrilov è impegnato nell’incisione del Clavicembalo ben temperato di J.S. Bach, con la consueta sobrietà che contraddistingue le sue interpretazioni del celebre autore tedesco. Esibitosi in tutto il mondo nelle più prestigiose sale da concerto (da New York a Los Angeles, da Vienna a Parigi, da Tokyo a Mosca e San Pietroburgo), ha collaborato con le relative orchestre e sotto la direzioni di rinomati direttori quali Abbado, Haitink, Muti, Ozawa, Svetlanov, Tennstedt, Rattle e Neville Mariner. Non solo pianoforte, tuttavia: all’edizione 2023 di Cremona Musica International Exhibition and Festival Gavrilov ha presentato il suo ultimo libro Fira e Andrej. La mia amicizia con Svjatoslav Richter, edito da Zecchini. Un’opera capace di gettare uno sguardo non solo sul legame tra due giganti della tastiera, ma anche sulle complesse vicende politiche e culturali del Novecento.

 

Caro Maestro, quali sono state le tappe fondamentali della sua prestigiosa carriera?

In realtà non vedo lo sviluppo artistico di un essere umano come un percorso a tappe: ritengo che si tratti di un processo costante, fatto di studio incessante, apprendimento e crescita personale.

 

Molti interpreti, al contrario, attribuiscono grande merito a un dato concorso, a un concerto o a un disco…

La musica è qualcosa di umano. Quindi un grande musicista è un grande essere umano. Tutto il resto è solo tecnica [“craft” in inglese, ndr], ciò che viene utilizzato per dar voce a uno strumento, una sorta di telecomando. Devo ammettere che ci sono molti fraintendimenti  nella nostra società a proposito della musica, dei musicisti e dell’essere umano in generale. È un tema molto complesso, che sarebbe difficile trattare nello spazio di un’intervista.

 

Certamente, possiamo però provare a dare qualche spunto ai nostri lettori.

Sono convinto che sia quasi impossibile trovare un linguaggio comune per parlare di questi argomenti. Questo avviene perché la quasi totalità della civiltà cristiana occidentale è imbevuta di una sorta di opinione condivisa e flusso di pensiero unico. Per questa ragione tutto ciò che avrei da dire sarebbe percepito come contrario alla comprensione “popular” di qualsiasi argomento.

 

Capisco, provo allora a farle domande più specifiche per entrare meglio nel merito. Ha partecipato, in qualità di giudice, a numerosi concorsi pianistici: crede che per un giovane musicista rappresentino un banco di prova importante? 

Penso che quella dei concorsi sia una prospettiva fondamentalmente sbagliata, perché le persone devono collaborare, non competere. Questo è cruciale per lo sviluppo dell’essere umano. Nessuna competizione fa bene a un artista: esiste un solo modo per svilupparsi e realizzarsi, ovvero tramite la cooperazione, sia essa a livello individuale o collettivo. Il sistema dei concorsi, al contrario, lo trovo completamente sbagliato, persino stupido e volgare. Si tratta di uno dei vicoli ciechi della civiltà moderna, pensare che le competizioni portino frutti; mentre non fanno che avvelenare il mondo.

 

Non avrebbe potuto spiegarlo in maniera più diretta. Qual è invece il suo rapporto con l’insegnamento?

Non esiste l’insegnamento, esiste la “condivisione”: della propria esperienza, del proprio pensiero – e della propria filosofia, se si riesce a trovare qualche nuova idea e a darle forma. Ma si tratta di una ricerca che dura per tutta la vita. Per cui l’insegnamento della tecnica [di nuovo “craft”, ndr], nella vita di un musicista non è altro che il punto di partenza della professione, qualcosa che dovrebbe avvenire a livello pre-adolescenziale. Non appena un giovane sviluppa un pensiero individuale e vuole intraprendere questo mestiere, dovrebbe essere messo in un ambiente dove persone più mature condividano con lui pensieri filosofici e strutturati, nonché esperienze personali.

 

In una sua intervista ha citato il libro dell’Apocalisse: «Conosco le tue opere, e so che non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Così, dato che sei tiepido e non sei né caldo né freddo, ti vomiterò dalla mia bocca». Che cosa intendeva dire? Che nell’arte non si può essere “tiepidi” ma bisogna mostrare una personalità ben definita?

Ovviamente è molto facile interpretare questo passo in senso metaforico; ma ciò che intendevo suggerire è di porsi in un’attitudine completamente diversa verso l’essere umano. Ritorniamo alla questione dei concorsi: la competizione porta ostilità e questo è molto negativo, si tratta di uno stadio molto arcaico dell’evoluzione umana. Ciò che non dobbiamo perdere neanche per un secondo è la ricerca di cooperazione, il tentativo di raggiungere un forte senso di fratellanza. Nel momento in cui questo viene dimenticato, creatività e arte muoiono. È molto semplice, perché in quanto umani anche la nostra immaginazione è legata alla nostra natura: quindi a prescindere dal livello che possiamo raggiungere, si tratta comunque di un prodotto tipicamente… umano. Purtroppo, di fronte a tutto questo, ci poniamo ancora in una prospettiva molto ingenua e selvaggia: ma non c’è altro modo per raggiungere uno stadio più evoluto di umanità e per trovare, quindi, la felicità.

 

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