Lo spazio architettonico come crocevia del cambiamento: uno sguardo sui teatri italiani. Intervista a Giorgio Battistelli.

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di Salvatore Sclafani

Fra i massimi compositori italiani contemporanei, Leone d’oro alla carriera della Biennale di Venezia (riconoscimento che gli verrà conferito quest’anno), Giorgio Battistelli è una persona di grande spessore intellettuale, abituata a parlare con franchezza.

Dopo il suo Julius Caesar, andato in scena in prima assoluta il 20 novembre al Teatro dell’Opera di Roma, e la sua Toccata, che lo scorso 24 gennaio ha aperto la stagione sinfonica del Tetro alla Scala, opera commissionatagli per i 40 anni della Filarmonica, il grande compositore Giorgio Battistelli coglie l’occasione per riflettere sulle sfide che attendono, nei prossimi anni, i teatri e le orchestre italiane. In particolare, il Maestro si sofferma sull’importanza dello spazio architettonico come chiave di volta per il rinnovamento del mondo musicale e sottolinea la necessità di riconciliare le iniziative culturali del nostro Paese con le diverse realtà territoriali.

Maestro Battistelli, in una precedente intervista, lei esprimeva rammarico per l’incapacità, da parte dei teatri e delle orchestre, di creare orizzonti e sviluppare solide progettualità.

In questo momento, vede un’inversione di rotta?

In realtà, non è cambiato molto. Le conseguenze di più di due anni di pandemia sono evidenti nei nuovi rapporti sociali, nei cambiamenti dei parametri culturali, nelle consuetudini. Si sono diffusi modi diversi di fare teatro, di organizzare concerti e mostre.

In un contesto simile, soltanto degli investimenti sullo “spazio” della musica possono aiutare a compiere un’effettiva inversione di tendenza: si tratta di una dimensione capace di creare un’alternativa, foriera di vie da percorrere. Penso agli architetti, in maniera più specifica: figure professionali capaci di dare una risposta alla crisi attuale, attraverso una dinamica di creatività e trasformazione dell’esistente. I progetti architettonici possono avere un impatto importante in tal senso, se orientati verso una conservazione non museale ma dinamica di teatri, chiese, piazze, gallerie d’arte, efficace nel rispondere alle esigenze del presente.

Considero il lavoro dell’architetto una sorta di passe-partout utilissimo all’evoluzione dei luoghi consacrati alla musica: i nostri teatri di tradizione. Dobbiamo, infatti, riformulare una loro organizzazione interna che non sia più quella dei secoli scorsi, senza tuttavia lacerarli. Occorre ripensare lo spazio del teatro italiano in maniera creativa, sulla base delle esigenze della nostra epoca, in modo da permettere al pubblico contemporaneo di sentirsi accolto, e all’artista di considerarlo un perimetro in cui sperimentare nuovi sentieri di espressione. In questa direzione, sarebbe opportuno elaborare delle soluzioni insieme a un team di architetti italiani, con un serio progetto di impiego delle risorse del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza).

È ancora possibile produrre, oggi, opere in luoghi che hanno due o trecento anni? Mi sembra che a subire delle costrizioni non siano soltanto le composizioni attuali, ma anche il repertorio della tradizione, spesso proposto con allestimenti moderni e visionari in spazi eccessivamente intatti, non innovati. Ciononostante, i grandi autori del passato restano la garanzia che l’opera abbia comunque presa sul pubblico, anche con regie talvolta incomprensibili. I teatri italiani sembrano non curarsi affatto del rapporto fra occhio e orecchio: pur avendo paura di programmare autori del nostro tempo, continuano a proporre opere della tradizione in letture estremamente contemporanee, quasi controverse. Sembra che spaventi più l’ascoltare che il vedere.

 

Quali difficoltà nascono da tali contraddizioni? Vede possibili soluzioni?

Dopo oltre due anni di pandemia e diversi lockdown, si conferma una totale mancanza di prospettive da parte dei teatri italiani. Gli spazi della tradizione continuano a essere gestiti nell’attesa di una chimera: il ritorno alla situazione pre-pandemica. Le produzioni sono pensate senza innovazione e risultano rarefatte, costrette dalle restrizioni e dai condizionamenti attuali. L’assenza di progettualità politica e culturale dei teatri italiani risiede nelle scelte legate alle opportunità politiche più che alle effettive necessità culturali. Il risultato è un malessere diffuso fra gli artisti e il pubblico. Non riusciamo a creare un orizzonte, non sappiamo dove stiamo andando e viviamo nella perenne attesa di un deus ex machina che possa farci evolvere.

È necessario che i teatri italiani escano da tale impasse. E per rispondere a tale esigenza, il contributo del pensiero architettonico si rivela fondamentale: l’architetto può essere costruttore di un nuovo mondo e deve intervenire, allo stesso tempo, sull’esistente per meglio conservarlo e renderlo vivo.

Individuo, poi, un’ulteriore aggravante: il settore culturale è divenuto un’area in cui prendono piede il potere finanziario e l’ipertrofia del narcisismo, come se i teatri e i festival fossero diventati dei luoghi in cui alimentare i propri interessi personali. Ciò non permette politiche culturali stabili, basate sulla progettualità, sullo sviluppo dello spazio architettonico e capaci di stimolare l’immaginario, ma si coltiva il singolo evento, effimero, concepito esclusivamente perché sia, a tutti i costi, diverso rispetto all’offerta presente, in nome di una sterile compiacenza mediatica.

In che modo la tradizione può contribuire a infondere vitalità nei teatri?

I teatri italiani sono, attualmente, realtà totalmente sradicate rispetto al tessuto sociale. La tradizione può aiutare a ricostituire delle radici sane, purché non ci si limiti a una sua conservazione: la trasmissione della memoria deve, infatti, contribuire a far crescere i contesti, rimanendo consapevoli delle potenzialità e delle difficoltà del proprio tempo. Invece, i teatri, in Italia, hanno una funzione estremamente ridotta, di mero passatempo, di intrattenimento rassicurante per il pubblico. Sono spazi che diventano, a fatica, dei non-luoghi mummificati in cui coltivare l’apparenza.

 

L’inaugurazione della stagione 2021-2022 al Teatro dell’Opera di Roma con Julius Caesar, un’opera inedita, costituisce una felice eccezione, oggi, mentre una volta era prassi abbastanza diffusa quella di presentare, nei diversi teatri, nuove creazioni.

Quali sono le difficoltà che i teatri incontrano nel commissionare o produrre un’opera nuova e inserirla in cartellone? Si tratta di un problema essenzialmente economico o più squisitamente culturale?

Credo si tratti di un problema culturale, con alcuni risvolti economici. I sovrintendenti dei teatri agiscono, in maggioranza, come gestori e non come impresari, tranne alcune eccezioni: esistono, ovviamente, sovrintendenti con la stoffa dell’impresario, capaci di creatività e di incoraggiare la nascita e la realizzazione di progetti nuovi. Ma, in generale, i sovrintendenti mostrano di essere prevenuti culturalmente, condizionati dalla convinzione che presentare opere moderne allontani il pubblico. Talvolta, anzi, sembrano temere che un lavoro sinfonico di un importante autore contemporaneo possa nuocere al botteghino.

 

In che modo la politica può esercitare un impatto positivo sulla cultura?

Crescere e trasformarsi culturalmente implica uno sforzo continuo e sul lungo periodo. L’Italia non si è mai posta il problema di come investire in tal senso e di come rendere dinamica una dimensione congelata, pietrificata. A mio avviso, si tratta essenzialmente di un problema antropologico, a detrimento del pubblico. Faccio un esempio: proprio perché il melodramma è nato da noi, sarebbe più naturale viverlo, qui, come una trasformazione continua, non soltanto dello spazio, ma anche della creazione artistica. Ciò che, ancora, non si conosce provoca disorientamento; il pubblico italiano non è abituato allo “spaesamento”, alla “gestione della dissonanza”, sia musicale che sociale. E la politica non aiuta: l’uomo politico pensa e gestisce un teatro come una delle tante realtà locali che necessitano finanziamenti. E investire sulla cultura resta, in Italia, qualcosa di innaturale: si pensa, spesso, ai costi e ai guadagni in termini meramente economici.

Sarebbe un segno di grande civiltà, per una società contemporanea, svincolare alcuni ministeri dall’obbligo del pareggio di bilancio: penso alla Salute, alla Difesa, all’Istruzione e ai Beni culturali. Se questi quattro ministeri-pilastro avessero accesso a un finanziamento continuo da parte dello Stato, il Paese potrebbe davvero crescere. Ciò consentirebbe di intravedere nuove e inedite prospettive.

 

Quali sono le sue priorità da direttore artistico dell’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento?

Le orchestre e i teatri sembrano muoversi su un orizzonte semestrale quando, in realtà, abbiamo bisogno di una prospettiva lungimirante, decennale. Per questo mi chiedo, spesso, da direttore artistico dell’Orchestra Haydn: «Verso quali mete voglio condurre la mia orchestra, da qui ai prossimi anni?». Simili interrogativi animano la progettualità, rassicurando e motivando il lavoro dei professori d’orchestra.

Bisogna attuare dei cambiamenti, in collaborazione con i ministeri dell’Istruzione, dei Beni culturali e con le amministrazioni locali. Un’orchestra può crescere se supportata dalla volontà politica e culturale. La politica, da sola, non basta; e viceversa, è difficile far crescere la capacità culturale senza la lungimiranza della politica, sia nazionale che locale.

Nel mio lavoro di direttore artistico, cerco di “architettare” delle stagioni tenendo conto dei rapporti di volume e forma fra le produzioni proposte. E, a mia volta, devo rapportarmi con delle forme che rispecchiano le trasformazioni della società: in questo caso, quelle legate alla pandemia hanno un profondo impatto sui teatri.

 

La pandemia ha avuto un’influenza nefasta sul mondo teatrale italiano, anche dal punto di vista umano?

Finora, la pandemia ha evidenziato una crisi etica e morale molto forte nel nostro ambiente, musicale e teatrale: si fanno avanti sempre con maggiore forza le non-collaborazioni fra le istituzioni e, spesso, i dirigenti mostrano mancanza di etica. Tutto questo viene accettato con una rassegnazione tale da impedire la creazione di una dimensione nuova, di rinascita, basata sulla progettualità.

Senza una vera e propria traiettoria iniziale, infatti, i teatri tendono a compiere le proprie scelte in base alle proposte altrui: anzi, se in una città coesistono un teatro d’opera e un’orchestra sinfonica, molto probabilmente vivono in contrasto, senza stimolare sinergie e convergenze creative. Invece, sarebbe interessante vedere, ad esempio, una realtà importante come quella di Roma con un progetto politico di unificazione delle sue due grandi fondazioni: l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e il Teatro dell’Opera. Vorrei immaginare un unico fulcro organizzativo, di progettualità artistica non condivisa ma “concepita” insieme. Ciò condurrebbe, anche dal punto di vista pratico, a risparmiare sui costi.

Nonostante la difficile condizione attuale, si assiste, spesso, alla nascita di orchestre e di nuove iniziative culturali. È una buona notizia? E in che modo tali attività si coniugano con il territorio?

È lodevole far nascere nuove orchestre, ma bisogna essere certi di farle crescere: altrimenti, è come mettere al mondo un figlio senza poterlo nutrire, materialmente e spiritualmente. Il rischio è che attività del genere scompaiano dopo pochi anni. E penso la stessa cosa dei festival (soprattutto quelli estivi, quasi sempre pretesti di semplice intrattenimento): l’Italia è fra i Paesi europei con il maggior numero di festival, ma abbiamo davvero necessità di questa “bulimia”?

Mi sembra che, in realtà, fenomeni di questo tipo rispondano più all’individualismo esasperato, una forma di egotismo oggi molto di moda, di chi gestisce gli spazi: come se fossero essenzialmente di facciata, riflesso di uno slogan politico e non frutto di un progetto vero e proprio. Approcci simili conducono allo sperpero, alla segmentazione, all’impoverimento delle risorse economiche e creative del territorio. Penso al potenziale artistico e culturale della Toscana: purtroppo, le istituzioni culturali autoctone sembrano condurre un dialogo fra sordi e lavorano in conflitto, in dissonanza. L’unica istituzione della regione capace di realizzare un vero e proprio lavoro di divulgazione sul territorio è l’Orchestra della Toscana. E anche la zona della Versilia rappresenta un’eccezione: un territorio che mette in essere un arcipelago di iniziative importantissime, in cui è possibile costruire ponti e lavorare in uno spirito di reciprocità.

I teatri e le orchestre devono andare oltre la paura dell’altro e dell’ignoto e investire sulle relazioni, sulla cooperazione, operando delle scelte senza aver paura di possibili rinunce. In tal senso, il politico riveste un ruolo determinante: e nella Regione Toscana, figure come il presidente Eugenio Giani agiscono in maniera intelligente. Anche se si tratta di un compito difficile, scegliere fa bene e permette di evitare i cosiddetti “finanziamenti a pioggia”, capaci di creare consenso iniziale per cedere, presto, il posto alla delusione; la scelta implica esclusione, ma quando viene definita sulla base di un progetto culturale chiaro e lungimirante, allora può essere davvero accettata dalla collettività.

 

Cosa ha significato per lei lavorare nuovamente a una tragedia shakespeariana, il Julius Caesar?

La grandezza del teatro shakespeariano risiede nella capacità di porre interrogativi sempre attuali e pertinenti, indipendentemente dalle epoche. Nel Julius Caesar, mi hanno colpito due dimensioni presenti in maniera quasi ossessiva nella nostra società: il dubbio e il rapporto con il potere.

Nella mia lettura, ho voluto interpretare i congiurati come personaggi segnati dalla dubitanza, costantemente in preda a tensioni e tormenti: hanno compiuto un assassinio che ha cambiato la storia dell’umanità e, subito dopo, si trovano a dubitare del loro gesto, ognuno con motivazioni diverse; come Bruto ad esempio, che dice di amare entrambi, Cesare e Roma, ma di scegliere Roma.

Nella nostra società, il dubbio è considerato una debolezza. Una persona dubbiosa si ritrova, spesso, a essere ingiustamente stigmatizzata. Nell’immaginario collettivo, l’esercizio serio e competente di un mestiere non può convivere con il dubbio. L’individuo che accetta il dubbio nella propria quotidianità è un personaggio scomodo, che rompe il ritmo frenetico dell’oggi. L’epoca attuale, purtroppo, richiede certezze e non dubbi.

Il rapporto con il potere costituisce un altro interrogativo cruciale; è un motivo che ho già esplorato in passato, nella mia opera Richard III (2004). Questa volta, ho voluto chiedermi: come ci relazioniamo con il potere, sia materiale che immateriale?

 

Lunedì 24 gennaio, la sua Toccata ha inaugurato la stagione sinfonica del Teatro alla Scala. Come ha vissuto questa responsabilità?

All’inizio, mi sono sentito spiazzato: non me l’aspettavo! Ho ricevuto la notizia soltanto pochi mesi fa. Si tratta di un lavoro molto breve, commissionatomi da Riccardo Chailly per i 40 anni della Filarmonica della Scala.

Nello scrivere questa Toccata, un brano che ha aperto non soltanto il concerto del 24 gennaio, ma anche la stagione sinfonica della Filarmonica, ho pensato di approfondire ulteriormente il rapporto fra occhio e orecchio cui facevo allusione prima: la relazione fra il suono contemporaneo e la dimensione architettonica della sua diffusione.

Ma soprattutto, ho voluto realizzare, in maniera dissacrante e provocatoria, un ritratto di Chailly. La Toccata inizia in maniera solenne, maestosa: un’allusione all’aspetto icastico del grande direttore, capace, in un primo momento, di incutere soggezione; poi, però, l’ouverture diventa scattante, dinamica, terminando con un grande accordo teatrale, melodrammatico: in questo sviluppo, ho voluto esprimere, in musica, ciò che immagino della personalità di Chailly, delle sue inquietudini, della sua possibile inclinazione al dubbio. Dopo un iniziale rapporto formale, adesso ci conosciamo meglio e mi ha confidato di essersi riconosciuto in questa mia creazione. Ne sono contento: mi piace pensare che un artista del suo calibro possa rimanere un dubitante, una sensibilità aperta, ancora, agli interrogativi.

 

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