di Stefano Teani
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un’accelerazione vertiginosa nell’adozione dell’intelligenza artificiale nei processi creativi: la usiamo per tradurre, scrivere testi, progettare immagini, generare contenuti. Spesso senza nemmeno rendercene conto, ci stiamo abituando – come creatori e fruitori – a uno specifico “modo” di produrre e percepire la bellezza.
E se l’intelligenza artificiale non fosse solo uno strumento, ma anche – e forse soprattutto – una nuova corrente estetica dominante?
In altre parole: l’estetica proposta (o imposta?) dai modelli generativi sta diventando lo stile di riferimento della nostra epoca. E come ogni stile dominante, plasma la percezione, guida le scelte, detta le regole del gusto – anche laddove l’intenzione iniziale era solo quella di “aiutare” l’essere umano.
La funzione di un’estetica dominante.
Nella musica classica questa riflessione tocca un nervo scoperto. Il grande trauma del Novecento musicale è stato proprio la perdita di un’estetica di riferimento. Con la dissoluzione dei linguaggi tonali e l’emergere di avanguardie sempre più autoreferenziali, il secolo scorso ha prodotto straordinarie individualità, ma anche un’enorme difficoltà collettiva a condividere codici espressivi.
Theodor W. Adorno, filosofo e musicologo, parlava di una “dialettica dell’illuminismo” applicata anche all’arte: l’emancipazione estrema dell’individuo porta alla frammentazione, alla perdita di senso comune, fino alla paralisi creativa. Senza un’estetica dominante, tutto è possibile – ma nulla è necessario, e questo può bloccare il progresso.
L’IA come stile, non solo come tecnica.
Oggi, l’intelligenza artificiale propone soluzioni stilisticamente coerenti. Le immagini prodotte da modelli come Midjourney o DALL·E hanno un riconoscibile “tocco IA”: pulizia, simmetria, equilibrio visivo, un certo idealismo post-digitale. Anche i testi generati da strumenti come ChatGPT tendono verso un tono ordinato, informativo, privo di ambiguità e ridondanze.
Si sta creando, senza dichiararlo, una nuova “forma di bellezza” implicita, che non nasce da una scuola artistica o da un manifesto, ma da un algoritmo addestrato su milioni di esempi.
Walter Benjamin, nel suo celebre saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, osservava come i mezzi di produzione influenzino profondamente la forma e la percezione dell’arte. Oggi, l’IA non solo riproduce: crea ex novo, e nel farlo stabilisce dei canoni – magari provvisori, ma già operanti.
È un bene? Una proposta, non un verdetto.
È facile assumere un atteggiamento critico o nostalgico. Ma voglio proporre un’altra lettura: forse è proprio questo il punto di svolta di cui l’arte ha bisogno. Un’estetica dominante non è una gabbia: è un terreno condiviso da cui partire, da cui differenziarsi, da cui emergere.
La storia dell’arte lo dimostra: ogni grande innovazione nasce in dialogo (e spesso in rottura) con un’estetica dominante. Senza il classicismo, non avremmo avuto il Romanticismo. Senza la tonalità, non ci sarebbe stata la dodecafonia. Senza regole, non c’è trasgressione fertile.
E allora: se l’IA ci sta imponendo una nuova estetica – che ci piaccia o meno – forse dovremmo considerarla non un limite, ma un’opportunità. Un nuovo “canone” contro cui misurarci, un vocabolario da cui partire per reinventare il linguaggio artistico, anche quello musicale.
Come scriveva Umberto Eco in Opera aperta:
“L’arte è un gioco, ma un gioco che si fa sul serio.”
Ecco, forse è il momento di prendere sul serio questo nuovo gioco che l’intelligenza artificiale ci propone. Non per sottometterci, ma per rilanciare.
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